domenica 23 gennaio 2022

AIΩN di Mario Fresa (13)



AIΩN di Mario Fresa
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Rosa Pierno  
Come un fuoco sempre vivo 



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Colore

Vicino vicino al rosa, senza aggiungere alcunché, tenendolo fermo, serrato, come se avesse un cappio al collo, mentre è più palpitante. È puro, non si deve aggiungere nulla; solo tenerlo fermo con lo sguardo, invalidando con la mente il suo lucore sorgivo con un carboncino, contornandolo e scurendolo, affinché si stemperi la soave esistenza. Difficile resistere dinanzi a siffatta visione. Per fortuna, una linea nera, come un trapezio che salvi chi nel vuoto voglia irrefrenabilmente gettarsi, viene in soccorso. Gli occhi capitombolano dal soffitto al pavimento, così il rosa diviene appena un ricordo delle alte sfere.

Il mondo può divenire causa di doglianza per chi si lasci abbindolare dalle sue carezzevoli e sensuali tinte. Si è tentati di scambiare un intero regno per alcune perline di vetro. Correre dietro al colore come a un oggetto del desiderio. A volte, bisogna esercitare un controllo per non eccedere. Il memento del teschio, nello studio, sul tappeto dei foschi e fondi rossi, ricorda di qual fatta era l’oggetto tentatore: vanità. Più dell’oro luccicante, lo sventaglìo neribondo degli orli dei garofani.

Il corallo non è né rosa né pesca, ma ha un colore intermedio fra i due. Una pesca non è una rosa, tuttavia entrambe posseggono un colore corallo. Una rosa posta accanto a un corallo adombra regni marini. Una pesca, in una natura morta, e vicina alla marcescenza, invidia la durezza imperitura del corallo. Il corallo è cosa e colore, ma non la pesca, sul limitare del suo processo di decomposizione. Il colore della pesca sfuma dal giallo all’arancio, le rose hanno colori che appartengono alla pesca e al corallo, alle ciliegie e alla cipria. Il rosa quale forma ha?

Una tinta che risultasse pallida e indistinta sarebbe relegata a blandi sfondi, sprofondanti nell’evanescenza. Un tal colore consentirebbe svolgimenti senza interferenze. Introdurre dissonanze, invece, equivarrebbe all’ingresso del re in una partita di sopravvissuti pedoni. Egli dominerebbe, pur con conseguenze tragiche o burlesche, elidendo la stagna quiescenza degli astanti, neri e bianchi.

Non esistendo un accostamento di colori sbagliato, un armonico equilibrio dipenderebbe esclusivamente dalle loro proporzioni. Si accetterebbe, di buon grado, solo per tal ragione, la supponente diatriba tra il viola e l’ocra in un abito maschile, l’astiosità tra il rosso e il rosa sulla pelle di un’anziana donna, lo stridìo tra il bronzo e l’argento: metalli caldi e freddi. In natura, meno schiaffi per gli occhi che nella cultura. 

Argilla colorata da ossidi di ferro, con tonalità che coprono la gamma che va dal marrone chiaro al verdastro; l’ocra è un pigmento terroso che non è né giallo né senape. Tentare di seguirne le determinazioni è come osservare un pendolino che ipnotizza. Sono pigmenti molto usati per ritrarre i pendii terrosi. A tratti sgradevoli, essi recano con sé l’idea di secchezza, di paesaggio brullo. Hanno diversi nomi: terra di Siena, caramello, senape od oro vecchio e riconducono alla mente oggetti fra loro diversi, tutti troppo terrestri.

Il rosa rosa non è il rosa confetto né il rosa geranio. È il colore della rosa. Proprio quello. Anche il color pesca, avente un tono più chiaro dell’arancione, dovrebbe dunque essere il color pesca pesca. Il rosa è indefettibilmente associato al femminile; il pesca è più tranquillizzante dell’acceso colore delle carote.

Il colore è un enigma soltanto quando non si trovino espressioni linguistiche adeguate. Sembra esistere incongruenza tra quanto espresso logicamente e quanto percepito. Se l’esperienza è compiuta da una coltissima sensibilità, adusa a una frequentazione strettissima con i pigmenti, le cromìe non serbano più alcun mistero.

In molti quadri si osservano cose che non esistono nella realtà: non le stigmate di San Francesco e non le schiere dei santi disposti intorno alla Madonna in trono, in un paradisiaco palcoscenico a mezz’aria, e pur tuttavia si può considerare il prodotto dell’immaginazione quale cosa reale: i luminosissimi rosa dei palazzi e gli ocra chiarissimi delle colline glabre, coi cieli intensi e duri.

I margini tra i colori sono fluidi, tanto che appare disdicevole definirli delimitazioni. Al modo in cui in natura non esiste il contorno delle cose, o ne esistono infiniti, il colore non ha un preciso punto di cesura, ma sempre collassa o si mescida con quello sul quale è deposto o con quello accanto al quale risiede. Il colore è come un differenziale: il passaggio fra le tinte è indistinguibile. L’idea del giallo vero, quello più puro, è una via concreta dello spirito.

Il più luminoso fra due colori non ha necessariamente il maggior grado di saturazione. Il più limpido non è il meno infido. È difficile distinguere luminosità e saturazione al modo in cui è problematico leggere dalle espressioni di un volto i pensieri che lo attraversano come fugaci ombre. Che cosa si è in grado di affermare con certezza? Spandere con la spatola la cremosa pasta pigmentale, affondare le mani nello strato vischioso e asciugarsele sul corpo. Poi, sfiorare con la propria ombra gli oggetti del mondo.

Per descrivere un colore si può indicare la luminosità, la saturazione e la tinta. Com’è il colore che ho in testa se penso al verde? Smeraldo. Senza fronde, intorno? Ha un bordo luminoso ed è poggiato su un fondo grigio scuro, dal quale si può trarre un riferimento per la sua luminosità. È lo smeraldo a irraggiare luce o è il verde-campione, suo schema?

Contrariamente alla coscienza, la quale è influenzata dalla memoria e dall’abitudine, l’occhio percepisce in modo simultaneo le estensioni di un colore. Un segreto per comprendere meglio il carattere di una tinta è abituarsi a integrare quel che l’occhio vede. Lo sguardo non è mai da solo; è sempre puntellato da ciò che sa. 

Inventare, nonostante la referenza naturale, colori immateriali, sganciati da ciò che nel mondo si riscontra. All’affermazione che nella realtà il contorno non esiste, fa riscontro, solo per rispettare tale simmetria, l’affermazione che in natura non esistono tinte piatte. Si vedono contorni e campiture omogenee quando si osserva un paesaggio assieme ai suoi dettagli? O un continuo frangersi di tinte, uno sciame di mille scaglie di vetro?

Qualcosa è analogo finché non diventa opposto. Passando dal giallo al blu, evitare il marrone, altrimenti l’armonia, da che si stava svolgendo e consumando, si squassa e si scheggia,  e a terra, mesta, cade.

Nel definire in pittura il colore come autoreferenziale, alcuni sentono la necessità di puntellarlo con una caratteristica strutturale. Un modo per far entrare dalla finestra, in maniera permissiva e sorniona, la forma, che era stata cacciata dalla porta con alterigia e fermezza. Il colore può palesarsi in maniera congruente e armoniosa anche senza struttura. E perché si crede che il colore privo di forma abbia un legame solo con la superficie e non con la profondità?

Una sola tinta sbaraglia sorgenti luminose e ombre, rilessi e baluginìi, spazio e retrovie, ambiente estraneo e familiare scena. E così non le resta più un teatro dove inscenare le sue solari commedie e le sue folgoranti tragedie, la sua temperatura, i suoi bollori e afrori, i suoi raggelamenti. 

Se il colore ha un peso deve possedere anche una massa. Ha carattere, mostra ostentazione, insuffla aria, si allontana con disdegno, battibecca col suo complementare. Si dovrebbe narrare la storia del suo unico grande amore, non corrisposto, per la forma.

Abbinamenti e contatti non compongono una storia. Assonanze a detrimento della separazione e netti allontanamenti per l’uggia di consueti declivi non delineano sintonie, anche quando i contrasti non sono polari, ma approssimativi. Un resoconto che abbia come oggetto il colore vive di fusioni e di cesure a cui mancheranno per sempre stabili figure.

Il colore lo si vede solo grazie alla presenza della luce. Nel luogo più riposto, se si distingue una tinta dall’altra è segno che la luce sta esercitando il suo potere. Nel regno delle ombre, se ancora dispoticamente s’insedia la luce, potrebbero però mancare del tutto i colori.

Se non ci fosse l’essere umano a vedere questo mondo, bersagliato dalla luce, il mondo non sarebbe nemmeno incolore.



Commento.
Una prosa che è un’esplosione pura: un’esplosione che insieme illumina e stordisce (è in atto, qui, una gara feroce e luminosa tra il dire e il vedere, tra il sentire e l’essere visti, tra il nascere di un evento e il suo ricordo trasfigurato e dissipato come una febbrile visione da deserto). Non è una prosa che spieghi, riducendolo o limitandolo, il Caos che si apre davanti agli occhi di chi osserva l’immisurabile danza dei colori. È anzitutto, questa prosa, una musica indocile e misteriosa, perché intenta, di continuo, a balzare da una modulazione all’altra, in una progressione armonica sempre lontana dall’approdo di una rassicurante tonica centrale. E come un fuoco sempre vivo e incombusto; come il linguaggio infinitamente immaginoso di un fanciullo che discopra i significati nascosti nel linguaggio della luce; come un doppio coro di voci che dialoghi a distanza, intersecando suoni e riflessi di suoni che ovunque s’alzano e dilagano aggiungendo, senza requie, nuove parole al nostro desiderio di interrogare il mondo; così questa meravigliata prosa, mobilissima e densa, di Rosa Pierno (Napoli, 1959) ci introduce in un estremo universo percorso da continue metamorfosi, da specchiamenti che ad ogni passo rifioriscono e si annullano, rinascono e mutano sostanza e sembianza, prospettiva e intenzioni; è, insomma, questa incendiaria rassegna di visioni, il ritratto impossibile della stessa vita (e del suo ambiguo mostrarsi come un colore che contiene tutti i colori, lasciandoci infine, per l’inesauribile energia che esso sa sprigionare, saturi e ciechi). Ma questa prosa è anche una poesia: perché gira alla larga dalle bassure dell’ovvio, dalla spiegazione netta, dall’accomodamento logico. Il suo magico, numinoso tessuto linguistico incanta e spezza, in ogni passaggio, i confini di uno sguardo quadrato, conciliativo. 
Solo un poeta alto può avvicinarsi, dunque, alla vista coraggiosa di quell’immenso colore bifronte, e precario, e vertiginoso che definiamo esistenza. Immenso, perché non contenibile dal nostro sguardo; bifronte e precario, perché nessuna magia della parola può trattenerlo mai dal freddo buio che la morte, a poco a poco, aggiunge al suo respiro; vertiginoso, perché il canto-colore che l’attonito poeta scruta non è altro che un cadere sconfinato nell’incongruo di una domanda irrisolvibile: è il colore di un’indicibile narrazione che mostra l’infinito apparire e precipitare del nostro essere qui.






In alto, particolare da un’opera di Hermann Nitsch (Vienna, 1938).