mercoledì 19 gennaio 2022

AIΩN di Mario Fresa (11)

AIΩN di Mario Fresa

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Sebastiano Aglieco

Per tagli e per ferite  



 

 

*

Solitudo

 

 

Guardami.


Le mie mani non parlano più, non ti trovano

attraverso i tuoi occhi come la campagna 

                                                       [nei pioppi.

  

Dove sei?

Non abiti in questa luce ottobrina...


Tra le pieghe dei vestiti i visi si seccano

attendono la pioggia.


Il vento porta il tuo nome altrove.


Non toccarmi

non voglio essere di te, di tutti…


Alla stazione:

i pensieri si fanno nome.


Vedi?

Le piume delle tortore cadono sulle valigie.


Non riesco a scrivere...

Non ho più mani….


 


Commento.

Per un attimo, leggendo questa poesia inedita di Sebastiano Aglieco (Sortino, 1961), ci sembra vera e fondata la famosa formula di Suger de Saint-Denis, secondo la quale «Mens hebes ad verum per materialia surgit». Nel testo di Aglieco – un Arioso dagli affetti spezzati, in cui i sentimenti comunicano per improvvise e cupe accensioni – è infatti la materia dei nostri sensi a far percepire, a tratti e febbrilmente, i preannunci e i segnali, pur se labili o morenti, dell’inaccessibile vero (sono segni che appaiono, in ogni caso, come colpi irreparabili, o come sempre ritornanti ferite). E il vero, qui, si mostra sotto la forma sospesa dell’aspettazione e della stupìta interrogazione; ovvero di una fuga o di un ritorno per il tramite di un nuovo viaggio (la scena del racconto enimmatico non è forse una stazione?); sicché il poeta rivolge a quel vero, con atterrita incredulità, domande smarrite e fulminanti che vorrebbero, anche solo per un momento, squarciare il muro dell’attesa che l’opprime («Dove sei?»; «Vedi?»; e una domanda, ogni domanda è sempre, lo sappiamo, una piccola preghiera, una supplica di ascolto e di ricucitura…). Scrivere poesia diventa, in questo modo, la proiezione di una veglia costante, mai paga, e mai pacificata, che per tagli e per ferite (dunque, per materialia) dà l’alta – e momentanea - illusione di intendere l’invisibile sostanza della realtà non ancora accaduta, ma prossima alla soglia di un suo accecante svelamento: una realtà che appare sempre fitta di richieste ambigue, perché dolci e violente («Guardami»; «Non toccarmi») che poi difficilmente trovano ristoro o accoglienza o comprensione, perché tutto, alla fine, sfugge o muta o si allontana nella vertigine dello smarrimento e del nulla (come dichiara l’onirico e drammatico distico finale).


 


In alto, un’opera di Arthur Dove: Rain (1924).