venerdì 19 novembre 2021

AIΩN di Mario Fresa (7)

 

AIΩN di Mario Fresa

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Stelvio Di Spigno  
Il velame del tempo 
(e il suo infinito precipitare) 




*

Lode del provvisorio (in due tempi)

 

1)

 

Eravamo circondati

da quella stella che indicava in noi il futuro

sotterrando

l’amaro delle notti –

                                  fuggiva una parola

così legata al suo senso

e agli abeti delle vicine montagne

da avvilire il nostro comune patire

trasformando le sassaie interne

in una carica di luce

di una valle guardinga.

 

Poi partì, l’addolorata e dolorante

spoglia di noi,

il velame di una sera.

 

E ogni tanto torna a dirci il perché

delle nostre sacre lacrime.

 

2)

 

Osserva il disordine, la gioventù,

la casa col faggeto e l’arco diroccato

sotto il quale ti baciasti con Benny a diciott’anni.

Non sei soltanto figlio di un’ode o di un sonetto.

Le campane per tutti risuonano a stormo,

non più oblio, mai più immobilità, sveglia

i sensi e la nausea protratta e anche il sole

sarà per te l’unica nuvola del cielo.

 

 

 

 

Commento.

Nella prima sequenza di questo singolare testo bifronte di Stelvio Di Spigno (Napoli, 1975) il poeta getta uno sguardo all’indietro, e all’interno di sé: e la sua acuta e sensibile finestra mentale – aprendosi come una fitta e greve apparizione onirica – ritrasforma il passato in un ambiguo processo narrativo dalle movenze inesplicabili e scure.

Qui, “l’amaro delle notti” e “la valle guardinga” sembrano delineare uno spazio soffocante e insuperabile, perché interdetto alla comprensione e alla salvezza. Sembrano, dico: perché la successiva sequenza del testo (la seconda “tavola” del dittico), agendo come un’intensissima (e sorprendente) modulazione musicale, ci pone di fronte a una virata imprevista che ci mostra, come d’incanto, l’incalcolabile, profonda ambiguità del tempo e dei sentimenti, entrambi legati alla mortale dispersione dell’impermanenza di ogni forma vivente (di qui l’idea di presentare i due movimenti, centrati sull’opposizione tra l’immobile gravità di ciò che è stato e la lieta luminescenza della speranza di ciò che potrebbe essere, come una “lode del provvisorio”).

 “Non più oblio, mai più immobilità”: le prime tetre visioni scòrte dalla mente-finestra cedono il passo a un’ineffabile volontà di rigenerazione e di auto-superamento. Ed ecco: in un attimo soltanto, lo sguardo è pronto a consegnarsi a un innalzante desiderio di vittoria sulla Natura e sul tempo: così che, infine, a dispetto della “nausea protratta”, il poeta    e con lui il lettore – avanza, con coraggio, a un nuovo sentimento di luce e di risanamento, di compimento e di inattesa rivelazione.

 

 



In alto, di Shomei Tomatsu: Oh! Shinjuku (1969).