AIΩN di Mario Fresa
Stelvio Di Spigno
Il velame del tempo
*
Lode del provvisorio (in due tempi)
1)
Eravamo circondati
da quella stella che indicava in noi il futuro
sotterrando
l’amaro delle notti –
fuggiva una parola
così legata al suo senso
e agli abeti delle vicine montagne
da avvilire il nostro comune patire
trasformando le sassaie interne
in una carica di luce
di una valle guardinga.
Poi partì, l’addolorata e dolorante
spoglia di noi,
il velame di una sera.
E ogni tanto torna a dirci il perché
delle nostre sacre lacrime.
2)
Osserva il disordine, la gioventù,
la casa col faggeto e l’arco diroccato
sotto il quale ti baciasti con Benny a
diciott’anni.
Non sei soltanto figlio di un’ode o di un
sonetto.
Le campane per tutti risuonano a stormo,
non più oblio, mai più immobilità, sveglia
i sensi e la nausea protratta e anche il
sole
sarà per te l’unica nuvola del cielo.
Commento.
Nella prima
sequenza di questo singolare testo bifronte di Stelvio Di Spigno
(Napoli, 1975) il poeta getta uno sguardo all’indietro, e all’interno di
sé: e la sua acuta e sensibile finestra mentale – aprendosi come una fitta e greve
apparizione onirica – ritrasforma il passato in un ambiguo processo narrativo
dalle movenze inesplicabili e scure.
Qui, “l’amaro delle
notti” e “la valle guardinga” sembrano delineare uno spazio soffocante e insuperabile,
perché interdetto alla comprensione e alla salvezza. Sembrano, dico: perché
la successiva sequenza del testo (la seconda “tavola” del dittico), agendo come
un’intensissima (e sorprendente) modulazione musicale, ci pone di fronte a una
virata imprevista che ci mostra, come d’incanto, l’incalcolabile, profonda
ambiguità del tempo e dei sentimenti, entrambi legati alla mortale dispersione
dell’impermanenza di ogni forma vivente (di qui l’idea di presentare i
due movimenti, centrati sull’opposizione tra l’immobile gravità di ciò che è
stato e la lieta luminescenza della speranza di ciò che potrebbe essere,
come una “lode del provvisorio”).
“Non più oblio, mai più immobilità”: le prime tetre visioni scòrte dalla mente-finestra cedono il passo a un’ineffabile volontà di rigenerazione e di auto-superamento. Ed ecco: in un attimo soltanto, lo sguardo è pronto a consegnarsi a un innalzante desiderio di vittoria sulla Natura e sul tempo: così che, infine, a dispetto della “nausea protratta”, il poeta – e con lui il lettore – avanza, con coraggio, a un nuovo sentimento di luce e di risanamento, di compimento e di inattesa rivelazione.
In alto, di Shomei
Tomatsu: Oh! Shinjuku (1969).