lunedì 24 maggio 2021

Un risveglio di fiati e colori

Matteo Bonvecchi, De praecipitata luce, FaraEditore, Rimini 2021

recensione di Paolo Cruciani


 
Leggendo De praecipitata luce, verso dopo verso, pagina dopo pagina, si deve essere davvero riconoscenti a Matteo Bonvecchi.
Non solo per la sensibilità poetica, non solo per la scelta di non una sola parola che non provenga dall’imponderabile sfera delle emozioni, ma anche perché ognuna delle poesie che compongono questa sua recente raccolta evoca un ricordo, una sensazione. Sensazioni nuove e ricordi che giacevano sopiti nella memoria di chi, come chi scrive, è stato per un periodo di tempo a stretto contatto con i pittori della cosiddetta “Scuola camerinese” del Quattrocento, ma anche emozioni che nascono in chi non ha mai sentito parlare di questi artisti, delle loro vite a volte misteriose e sfuggenti, e che non ha magari mai osservato con attenzione le loro opere. Opere ed artisti che furono, una manciata di anni fa, persino sovraesposti in un girotondo di traslazioni, una ridda di attribuzioni; fu una rivoluzione rumorosa, un corruscare aggressivo e caotico che frastornò tutti e che, spentasi l’eco, spinse presto questi spiriti e le loro tavole e affreschi in un polveroso dimenticatoio. Facendoli tornare ectoplasmi senza vita. Senza più colore. Stanchi di troppo rumore, desiderosi di tornare al loro usato silenzio, interrotto solo da voci gentili di Madonne bellissime, di suoni di flauti, di vielle e di liuti, si sono chiusi la porta alle spalle lasciando però uno spiraglio per chi davvero volesse parlare di nuovo con loro.
Matteo Bonvecchi ha saputo risvegliare questi fiati e questi colori con la stessa leggiadria e la stessa musica, ed ha soffiato via quella greve polvere dell’assenza. Sarebbe banale e superfluo dire solo che leggere le poesie equivale a perdersi negli spazi e nei colori di questi pittori.
No, non è solo questo.
I versi e i disegni di Matteo Bonvecchi non intendono sostituirsi ai dipinti di Carlo Crivelli, di Giovanni Boccati e degli altri maestri, ma li accarezzano, li seguono dall’impasto dei pigmenti e dei leganti nelle loro tavolozze e nelle setole dei pennelli fino alla gioia del polittico, arabescando sulle macchine lignee rilucenti d’oro. Ci restituiscono finalmente la gentilezza, l’atmosfera commovente, vissuta e cortese di quegli spazi, di quei sorrisi, di quegli ori, di quei fiori, di quelle passioni che temevamo di aver perso per sempre. Ci restituiscono la Fede sincera di cui queste opere sono piene. Ci restituiscono, finalmente, l’arte.
Ecco.
Le opere d’arte sono lì per essere viste. Colori e luci, musica e oro, devono sprigionarsi senza che veli pergamenacei, in cerca di quadrature del cerchio, li offuschino. Queste composizioni poetiche ci invitano ad ammirare di nuovo questi dipinti che credevamo di conoscere, che abbiamo visto mille volte e mille volte dimenticato. Guardare le opere e, anziché indugiare in noiose, ripetitive e sterili guide tascabili, leggere le poesie di Matteo che d’ora in avanti ne costituiranno per me insostituibile compendio. Le parole del poeta e i colori dei pittori, i colori del poeta e le parole dei pittori ci indicheranno sicuramente sentieri nuovi da percorrere con rinnovata passione. Ho trovato nel libro pensieri che, nella furia scomposta tipica degli “addetti ai lavori”, non mi avevano mai sfiorato.
Leggere queste poesie è come aprire di nuovo quella porta lasciata socchiusa, chiudersela alle spalle e desiderare di restare lì per sempre.
Questo.

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