domenica 2 agosto 2020

Lorenzo Spurio sul poeta pakistano (palermitano acquisito) Umeed Ali


Articolo di Lorenzo Spurio




Sulla testata online Rolling Stone alcuni giorni fa è stato pubblicato un articolo[2] a firma di Gianmarco Aimi dedicato al poeta pakistano Umeed Ali dal titolo incisivo (quanto forse provocatorio) “E se il miglior poeta italiano fosse in realtà pakistano?” nel quale viene presentato – per pillole – un identikit del poeta Umeed Ali, attualmente residente a Palermo in condizioni disagiate, tracciando anche elementi della sua vita passata.
L’articolista è piuttosto convinto nel sostenere – sulla scia di intellettuali di vario calibro – che la poesia di Umeed Ali sia particolarmente persuasiva ed efficace, dotata di spontaneità e ricca di tormento per la povertà con la quale ha sempre vissuto (e vive tuttora) a contatto ma anche di messaggi di forte responsabilità civile nonché di speranza.
Ho deciso, nel giorno stesso della pubblicazione dell’articolo di Aimi, di rilanciare la notizia ponendo la giusta attenzione sul poeta pakistano – secondo me meritorio di lettura e di maggiore approfondimento – rilanciando anche la recensione che cinque anni prima scrissi sul suo libro Bilancio interiore, acquistato direttamente da lui quando lo incontrai a Palermo ad aprile 2015. Lo rincontrai, poi, casualmente, nel capoluogo siciliano, a tarda sera, in un’afosa serata di luglio 2017, in un momento di riposo nei pressi di via Maqueda. In quella nuova circostanza mi propose il suo nuovo libro – non ricordo ora il titolo ma un amico che era con me, invece, mosso da un sentimento credo di compassione, lo comprò – che per varie ragioni decisi di non prendere. Ma fu piacevole ritrovarlo e poterci riparlare.
Propongo a continuazione la recensione che scrissi a Bilancio interiore (da lui letta – allora – in anteprima e condivisa con entusiasmo) non prima di osservare che il titolo dell’articolo di Aimi, come forse era prevedibile succedesse, non ha mancato di generare criticità – quando non vero e proprio disappunto – in alcune persone, tra chi ha avuto da obiettare sull’estrema distanza (e impossibilità di conciliazione) tra la religione islamica (di cui Umeed è fedele) e la poesia in quanto campo libero, respiro di creatività che non può derivare da un’ideologia – per alcuni – vicina o coniugante una vena anti-democratica. Chi, invece, forse in odore di pregiudizi razziali e da un’impostazione vistosamente eurocentrica, non ha gradito il fatto che l’autore dell’articolo si è spinto troppo oltre, generando egli stesso un paradosso. Valido, ovviamente, nei termini della provocazione – o semmai dell’invettiva[3] – nell’individuare il miglior poeta italiano in un esponente che, di fatto, per ius sanguinis non lo è.
Mi sento di prendere le distanze da entrambe le prese di posizioni che non condivido e che reputo non accettabili e al contempo vorrei rammentare dell’arricchimento che nel corso degli anni – e ancora nelle ultimi decadi – la migrant writing, vale a dire la letteratura di autori stranieri emigrati in Italia, sia stato rilevante al punto di aver contribuito nettamente a scrivere pagine rimarchevoli, allargare contenuti, amplificare e ibridare linguaggi e tanto altro. Considerare il concetto di nazionalità nei termini di supposte barriere nazionali, che in gran parte non esistono più per l’Europa e che sono perlopiù confini mentali, è da reputare una bieca ristrettezza dal momento che, se per la legge non è possibile ritenersi cittadini di uno stato nel quale non si è nati, per la letteratura molto probabilmente sì. Un poeta che da tanti anni vive in Italia, che conosce bene il territorio, la lingua e la cultura, le usanze della gente, che ama quel territorio e – soprattutto – che ha un atteggiamento rispettoso e meritorio verso l’altro, non ha forse contribuito col suo percorso esistenziale – complice la sua attitudine doma ed empatica – a iscriversi (e ritrovarsi benvoluto e corrisposto) in un contesto che non è più il suo, nativo e ancestrale, ma italiano e in particolare palermitano? Lascio a chi vorrà riflessioni in merito alla questione. Non giudizi tranchant che, come spesso accade, non sono utili per dirimere questioni.

Umeed Ali


 

Dal giorno in cui ho capito le linee della mia mano
ho cominciato a litigare con la vita. (34)

Il mondo è come un bel libro
e il tempo è il migliore maestro:
volendo, si può imparare quasi tutto. (110)

 A testimoniare il fatto che gli incontri migliori e che più ti arricchiscono sono sempre quelli che capitano casualmente, o comunque senza nessuna coincidenza prestabilita, vorrei parlare del mio incontro con Umeed Ali, un signore pakistano della regione del Punjab, nato nel 1961 e poi emigrato in Italia in cerca di un futuro migliore molti anni fa. Non è la sua una delle tantissime storie di emigrati che tentano solamente di approdare in quello che ai loro occhi può apparire come il paese di Bengodi dove lasciarsi alle spalle le sofferenze e la povertà, ma è la vicenda amara – salda nella credenza religiosa – di una persona dall’animo profondamente sensibile. La scrittura, il suo amore per la poesia e la riflessione nel mondo di carta, infatti, lo ha portato a stringere un profondo legame con la parola: le sue prime opere, scritte già durante la sua esistenza in India, vennero scritte negli idiomi locali tra cui l’Urdu, il Saraiki e il Punjabi.
Ho conosciuto Umeed Ali durate un ciclo di eventi culturali che ho co-organizzato a Palermo a metà Aprile del 2015 ai quali lui, grande amante della cultura e frequentatore della Libreria Spazio Cultura dove si tenevano gli eventi, si è presentato interessato. Alto, dai profondi occhi neri e dal viso di una serietà dolce e pacata, con una generosità d’animo difficile da trovare oggigiorno si è presentato facendoci leggere anche alcuni estratti apparsi su giornali nazionali e locali di prestigiosi nomi che l’avevano recensito o conosciuto. Mi ha raccontato che la sua vita non era mai stata facile e neppure in quel momento, pur trovandosi a Palermo da alcuni amici, lo era. Era sempre alla ricerca di piccole donazioni per potersi sostenere e inviare soldi alla sua famiglia in India. Ciò che mi ha colpito è stata la sua voglia di parlare: di narrare di sé ma anche di saper ascoltare le vicende altrui, cosa che raramente un recente conosciuto è portato a fare.
Ho scoperto così che nella sua attività di vucumprà, che ha contraddistinto la gran parte della sua vita una volta giunto in Italia, ha praticamente viaggiato in su e giù quasi tutta la Penisola e che conosceva città, monumenti, collegamenti stradali e orografia ancor meglio di un qualsiasi nativo. Di esser stato vari anni a Padova che, anche se non ha amato molto la mentalità della gente del posto, adducendo alla loro freddezza e riluttanza, d’altro canto gli è stata propizia perché, proprio nel Triveneto, è stato appoggiato seriamente, per la prima volta, da associazioni, biblioteche ed enti locali che gli hanno fatto vendere un gran numero di copie del suo libro. Della mia Regione mi ha detto di esser stato a Jesi, Ancona, Falconara Marittima, cioè praticamente di conoscere il territorio abbastanza bene e, si sa, un vucumprà che è costretto a muoversi di continuo e sulle sue uniche gambe è il miglior “viaggiatore” e conoscitore degli spazi che ci possa essere sulla Terra. Il viaggio, che non è un divertimento, è funzionale al sostentamento ma al contempo gli permette di osservare il mondo nelle piccole cose e di conoscere meglio le persone. In tale contesto devono essere lette le sue considerazioni in merito alla sostanziale disparità tra un Nord freddo e disattento ai contatti sociali ma tendenzialmente lauto nel sostegno economico e, di converso, un Sud contraddistinto da grande spontaneità e calore ma oculatezza (parsimonia) in termini di aiuti ricevuti. Tra i due, come già accennato, non ha celato più volte di preferire il Meridione ed è proprio a Palermo dove l’ho incontrato che, forse per la multiculturalità del capoluogo siciliano e la stratificazione di popoli che nel corso del tempo si sono prodotte, che maggiormente ha trovato sintonia.
Mi ha raccontato che ha vissuto tanti anni a Perugia (nella quale – mi ha detto – ha intenzione di ritornarne dopo questa sua permanenza a Palermo) della quale conserva un bel ricordo e insieme abbiamo ripercorso i vari ambienti della toponomastica cittadina che ben conosco perché vi ho studiato due anni. Negli anni in cui io studiavo alla Facoltà di Lettere lui abitava poco distante da Piazza Morlacchi dove, pure, nella nota Libreria-Casa editrice Morlacchi aveva dato alle stampe il suo libro di poesie. Io a quel tempo mi servivo nella stessa libreria per testi universitari e dispense.
Durante la serata del 18 aprile, in cui alla Libreria Spazio Cultura avevamo organizzato il reading poetico dal titolo “Grandi e Dimenticati: la poesia che non muore”[4], Umeed ci ha letto tre sue poesie presenti nel libro o, meglio, le ha recitate a memoria in parte chiudendo gli occhi ma dandone sempre il massimo della forza espressiva nel suo italiano, perfetto, con lievi sentori di un difficile percorso di apprendimento. Ci ha spiegato che nelle lingue indiane da lui conosciute una stessa parola in base alla lettura, alla sonorità che ne scaturisce dalla pronuncia è possibile ricavarne significati differenti, completamente distanti tra di loro e che c’è una ricchezza lessicale stupefacente. La sua difficoltà nell’esprimersi in italiano, negli anni, non è stato il semplice saper tradurre da parola a parola, cosa meccanica e semplice come potremmo fare tra una lingua neolatina e l’altra, ma andare a vedere se nel relativo termine tradotto in italiano, in effetti, si mantenesse il significato originario del termine, nella lingua pakistana, come lui l’aveva inteso e creato. Un processo senz’altro difficile al quale la sua poetica, raccolta in questo volume bilingue italiano-inglese, si è dovuta piegare ma che, a ben vedere, non ne ha risentito in maniera troppo dura. Così scrive nella poesia intitolata “Dal giorno in cui ho iniziato a scrivere in italiano”: “È difficile riuscire a trasmettere i sentimenti/ in una lingua straniera,/ perciò mi manca sempre qualche parola giusta/ o qualche frase,/ ma quando finiscono queste lontananze, di lingua e colore,/ siamo tutti vicinissimi” (66).
Le poesie di Umeed Ali parlano di solitudini e lontananze, di indifferenze sociali e di disagi che si realizzano distanti dagli occhi dei più, sotto la luce del giorno. Sono parole che risentono dell’offesa subita, della mancanza di aiuto, dell’insensibilità e di una divinizzazione dell’uomo contemporaneo portata all’estremo. Una società in cui, parafrasando Orwell ma anche Sciascia delle Favole della dittatura esistono maiali (potenti) e topi (vittime) dove i primi, in cima alla scala piramidale, gestiscono l’esistenza di tutti e non fanno altro che incamerare ricchezze e infischiarsene di coloro ai quali per lo meno potrebbero dare briciole dei loro “pasti” da nababbi.
In questo Bilancio interiore, che è il titolo della raccolta, Umeed si denuda sulla carta per raccontarci la durezza di un’esistenza improntata alla continua ricerca nell’altro di comprensione, apertura, vicinanza e curiosità. Anche la semplice parola, il regalare una conversazione a una persona sola, depressa, malata o denigrata può significare per essa la salvezza e al contempo scopriremo che sarà stato un regalo anche per noi.
Il libro si apre con la poesia “Per Dio Grandissimo” e il “Dio Grandissimo” di Umeed chiaramente è Allah anche se lui non lo nomina e, parlando con lui di religione, ho percepito la sua indignazione su quel viso scuro prima rilassato e di colpo compunto e un’espressione schifata quando abbiamo parlato della nuova e grave minaccia terroristica che riguarda il mondo tutto. La religione per questi fanatici è solo un pretesto per ambire a qualcosa di più alto con l’aiuto di ingaggi internazionali che forniscono armi e coperture. Li ha definiti con i peggiori epiteti che si possano udire e ogni volta che ne fuoriusciva uno dalla sua bocca percepivo la sofferenza di chi ha sperimentato sulla sua pelle la violenza, la coercizione, lo sfruttamento, l’abnegazione a sedicenti logiche di salvezza.
Umeed è il poeta del sentimento, un uomo che, dinanzi a tante difficoltà, è riuscito a prediligere il lato umano e il rapporto interpersonale su ciascuna cosa ed è proprio per questo che è in grado di scorgere la bellezza, nella donna o nella natura, quando forse sarebbe più istintivo trovare spazio nello sconforto di immagini fosche e deprimenti: “Tocca la mia fronte/ perché il profumo della tua mano/ possa cambiare il mio destino” (28). Ed anche se la durezza di una vita trascorsa tra difficoltà (“io faccio sempre una dura vitaccia”, 56) e lontananze dai suoi cari è pesante da sostenere ed Umeed ci parla dei suoi “problemi di tutti i giorni” (34) il messaggio finale non è mai cupo, non tende al pessimismo, né allo scoraggiamento poiché, come lui stesso sostiene in maniera lapalissiana: “La vita è una gioia e pure un dolore/ la vita è un’offesa e pure un amore” (46).
Per un emigrato in un paese talmente diverso dal suo luogo di nascita e dalla sua cultura ci sarà sempre spazio al ricordo, più o meno mesto, di ciò che ha lasciato per altre terre. Trovo che nella poesia “Nostalgia” di Umeed sia contenuto questo sentimento di angoscia-ossessione che lo lega a un passato distante non solo in termini cronologici, ma spaziali, culturali e soprattutto affettivi: nella poesia “Nostalgia” leggiamo: “Mia cara nostalgia rimani con me/ non devi lasciarmi solo/ […]/ Se vuoi stasera andiamo insieme/ in qualche luogo particolarmente bello,/ […]/ e ti racconterò una bella poesia/ dedicata a te, mia cara nostalgia” (60).
Un libro-testamento che ci consegna pensieri sulla vita, sul senso della stessa e su come potremmo tutti vivere meglio se allontanassimo da noi il narcisismo che dilaga, se rifuggissimo l’invidia e abbattessimo l’indifferenza che costruisce giganti di roccia, monadi in sé chiuse e apparentemente autosufficienti. Nessuno è autosufficiente a sé stesso. Nessuna famiglia. Nessuna società. Ed è così che Umeed Ali ci interpella su riflessioni di questo tipo alle quali tutti i giorni non diamo troppo spazio impegnati nei tanti impicci quotidiani assorbiti da una ritualità che ci ha fatto automi: “Se tutti siamo figli di Eva e Adamo, / come mai fra noi così mal pensiamo” (54). Due versi linguisticamente semplici privi di retorica che non hanno la volontà di metter a giudizio nessuno, ma di aprire alla consapevolezza in unione con una contemplazione e profonda gratitudine verso il Dio creatore che dobbiamo pregare, invocare e sentire vicino a noi, come un grande amico a guidarci verso il bene mettendo fine a ciascuna idea che consacri la violenza e il sopruso tra gli uomini: “Vergognati egoista, hai sempre sete/ del sangue del tuo fratello innocente./ Non devi scordare che esiste un vero potete, grandissimo/ Di universale misericordioso” (64).
I versi di Umeed riguardano verità sacrosante che vanno scolpite sulla roccia e incise sui muri delle città affinché restino lì, perentorie, a informarci quale può essere lo spauracchio che dilania la comunità per chi ne svia il percorso e s’imbatte in territori dove la moralità e il senso di rispetto sono stati relegati a categorie inutili. La forza della parola è altisonante e diventiamo amici di Umeed uomo-esule-vucumprà-poeta-cittadino di nessun luogo che con l’arma più potente e persuasiva ci permette di guardare dentro di noi con più convinzione e serietà. Il suo verso si fa ora canto, ora preghiera, ora denuncia ora sdegno e commento critico sul mondo e nel complesso ci consegna un compendio autentico e sofferto del suo arcobaleno emotivo che, a intervalli, riaffiora nel cielo dopo momenti di pioggia e oscurità: “Quanto è bello stare con se stessi,/ raccontarsi di cose profonde/ e anche ascoltare se stessi” (92).







[1] La presente recensione al volume di poesia Bilanci interiori / Inner Balance di Umeed Ali è stata scritta il 30/04/2015 e pubblicata su Blog Letteratura e Cultura in data 01/05/2015 e al suo interno fa riferimento anche all’incontro fisico avuto con il poeta il 18/04/2015 a Palermo presso la Libreria Spazio Cultura (Macaione) in Via Marchese di Villabianca.
[2] Gianmarco Aimi, “E se il migliore poeta fosse in realtà pakistano?”, Rolling Stone, 27/07/2020, link: https://www.rollingstone.it/cultura/interviste-cultura/e-se-il-miglior-poeta-italiano-fosse-in-realta-pakistano/526421/?fbclid=IwAR0C68QiPYYuQDdLYhiAlQM4AH7bdwr9P1rcpJF6kJ32t_fTdNNvy8jy_9U (Sito consultato il 31/07/2020
[3] Infatti Aimi propone la questione non come definitiva e oggettivamente plausibile, ma la sottopone al lettore nella forma di un interrogativo, vago quanto retorico, curioso quanto difficile da appurare dopo aver letto il suo articolo. Giudizi di merito attorno alla poetica di Umeed Ali sono stati prodotti, nel corso del tempo, da parte di vari intellettuali che ne hanno riconosciuto qualità e forza espressiva. Chiaramente Aimi lancia il sasso nello stagno: sta al lettore dell’articolo farsi un’idea in merito a ciò che egli “narra” ma è chiaro che risulta complicato – impossibile rispondere – al quesito; per lo meno se non si sono lette le poesie del poeta pakistano. Se la sua vita tribolata fa “scena”, effetto plot (con plausibili sentimenti di compassione e vicinanza verso l’uomo) è anche vero che per poter esprimere una valutazione qualificata e oggettiva, critica e analitica dell’opera, essa vada ricercata e letta.
[4] Le poesie dei poeti che presero parte a tale reading – assieme a quelli di altri reading precedenti organizzati dalla rivista di letteratura Euterpe e successivi organizzati dall’omonima Associazione Culturale Euterpe di Jesi – sono stati pubblicati nel volume collettaneo: AA.VV., Sicilia, viaggio in versi. Antologia dei reading poetici organizzati dall’Ass. Euterpe in Sicilia (2013-2018), a cura di Lorenzo Spurio, Associazione Culturale Euterpe, Jesi, 25019.

Nessun commento: