giovedì 9 novembre 2017

L'Immagine convessa del cantore irpino

recensione di Teresa Armenti



È davvero inesauribile la vena poetica di Vincenzo D’Alessio, che ogni anno ci fa vivere, con le sue liriche, nuove emozioni. Immagine convessa, finalista al concorso Con-giurati, è stata pubblicata da Fara editori di Rimini; con l’incisiva prefazione dell’editore Alessandro Ramberti e, in appendice, altre opere dell’autore (Il passo verde; La tristezza del tempo; Alfabeto per sordi). La raccolta è dedicata a suo figlio Antonio, scomparso prematuramente nove anni fa. Dalla copertina si staglia, nitida, la foto di Antonio scattata alcuni mesi prima della sua dipartita al cielo. Con la maglietta a righe bianche e rosse (la purezza e la passione), il giovane si lascia dietro le spalle il mare ed avanza verso l’Oltre. Il suo sorriso, che era stato invidiato dalla luna di Palinuro spiandolo dal promontorio, ora è dimesso, quasi spento. Il padre spalma il suo dolore lancinante nelle pagine che trasudano tristezza e solitudine e chiede al dio del vento di riportargli la voce di suo figlio per un attimo di eterno. Dal vento si lascia trasportare verso la montagna, dove riesce a respirare un po’ di pace e a trovare il vero Dio. Sembra proprio di leggere Francesco Petrarca quando scrive “solo e pensoso i più deserti campi vo misurando”. I campi del nostro autore, però, non sono deserti, ma sono popolati da fitti boschi di faggi, dal tiglio che profuma di sole, dal melograno fiorito nell’orto, da castagni, viti, ulivi. Sono abitati da cinghiali, lupi, volpi, sorvegliati da falchi e dalla pica, che becca la solitudine della campana rotta. Il Nostro ama la sua terra, ne esplora ogni angolo; ne segue il ritmo delle stagioni: dal gelo invernale all’urlo della trebbiatrice all’odore di mosto. Emergono ogni tanto volti segnati dal lavoro, suggestivi quadretti di vita quotidiana ritratti con rapide pennellate. Profondo è il legame con la Lucania, con il suo territorio e la sua gente, a cui dedica alcuni versi intrisi di affetto. Il poeta irpino si rammarica per la sorte dei giovani che sono costretti ad emigrare e maledice i politici che hanno ridotto il Sud in terra di miseria, di degrado e di inganni. Egli affida la rabbia alla luna, depone il dolore sull’acqua e dà sfogo alla sua vena artistica e ritmica con il blues meridionale al vecchio parroco don Raimondo Russo scomparso nel 2007. D’Alessio trova infine rifugio nei libri, che hanno il profumo degli amici, nei ricordi d’infanzia “Ripenso le mani di mia madre viola nell’acqua di fontana” e nell’incontro con il gruppo fariano a Fonte Avellana. “Oltre le nuvole del Catria/ il rapace ruba il respiro all’infinito/dov’è la fonte di Dio”. Il cantore del Sud nel silenzio abbraccia l’immenso e, sulle orme di Rocco Scotellaro, sogna un’alba nuova.

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