lunedì 12 giugno 2017

«Portami più spesso a cantare»: squarci potentissimi

Note sul libro di Vincenzo D’Alessio: Immagine convessa (Fara Editore 2017)

di Subhaga Gaetano Failla 




http://www.faraeditore.it/html/filoversi/immagineconvessa.html
La poesia di Vincenzo D’Alessio ha risonanze antiche, l’aspra melodia dei cantori erranti, le folgorazioni del lirismo greco, l’istante immobile dell’Eleate.
Ho letto Immagine convessa nelle soste di mie lunghe passeggiate mediterranee, nei giorni vasti che si approssimano al solstizio, per sintonia con l’ampio respiro di questi versi. Giunge da essi l’umore multiforme degli elementi congiunti, una fisicità impregnata di vibrazioni metafisiche, l’impermanenza che mai corrompe lo sguardo eterno del Poeta. Ho trovato in Immagine convessa la voce originaria di splendori Ionici, in un armonioso impasto linguistico tra luce e oscurità, tra fiammeggianti fiori e nere necessarie radici, nell’eco di moderne fraternità letterarie, da Rocco Scotellaro a Pavese a Ignazio Silone, fino a giungere alle divinità condivise accanto al passo viandante di Pasolini.
E nel mio vagare senza meta tra le pagine di Immagine convessa, scopro nell’importante introduzione di Alessandro Ramberti l’indicazione d’una poesia di indicibile bellezza, a pag. 19, che così esordisce: «Ripenso / le mani di mia madre». In un percorso a ritroso, a pag. 14, incontriamo uno dei molteplici bagliori lirici: «Chissà dov’è la culla/fiorita sotto il tiglio.» Ecco poi versi cristallini e forti, che mi ricordano le scansioni scultoree del pasoliniano La religione del mio tempo: «All’incrocio il pullman / raccoglie studenti / nell’alito gelido dell’Est.» E ancora, ci lascia attoniti un canto, una preghiera: «Dio del vento, / riportami la voce / di mio figlio / ora tuo figlio / per un attimo di eterno.» (pag. 38). Scopriamo poi, tra le poesie successive, una sorta di anelito universalizzante e panteistico: «Ho trovato Dio / nell’acqua della nascita / di tutti i viventi.» (pag. 49). «Respira in me il falco / con il cuore di uomo / l’urlo nella tempesta / il fuoco nel sole» (pag. 62). «Padre bosco che sei / più in alto siano santificati / i tuoi faggi vengano/le tue sorgenti a rinnovare» (pag. 76). Vincenzo D’Alessio ci offre squarci potentissimi, che giungono da ripetute immersioni, necessarie, negli elementi naturali – le formiche rosse, il castagno, valloni e montagne, la volpe e il falco. E nei versi seguenti, in una enorme metafora, nel terrore dello smarrimento ontologico scaturito dalla fusione elementare, il Poeta ci ricorda l’inevitabile “buia notte dell’anima” di cui parlano i mistici, da affrontare con coraggio: «Il temporale grida dentro / le montagne, stamane eravamo / usciti con il passo verde: / non temere il buio / quando arriva l’alba.» (pag. 81). Ritornano, nella sezione “La tristezza del tempo”, le deità innate e imperiture e gli archetipi della Magna Grecia, luoghi prossimi del respiro e dei passi di D’Alessio: “I filosofi si dissetano nelle ore di Elea / dove Poseidone non muore.» (pag. 89). Nella sezione conclusiva intitolata “Alfabeto per sordi”, incontriamo ancora il rinnovato splendore e l’esplicita intimità («quando recitiamo / i canti di Saffo») con la lirica greca: «Portami più spesso a cantare / nel giardino dove ridono i passeri / tra i limoni e il verde profumato degli aranci.» (pag. 98).
Al termine di queste mie note itineranti, lascio due immagini presenti nella stessa poesia: la prima descrive un demiurgo della quotidianità, un costruttore di minuscoli ma non meno essenziali mondi terrestri; nella seconda immagine distinguiamo l’ultramondano non incagliato nel tempo: «Vincenzo il casaro plasma / mille forme nelle mani / sorride serio sulla secchia / fumante di latte al mattino / imbraccia un bastone / come un re antico, / il sole greco da Paestum/sorride.» (pag. 102).
Spero infine di essere riuscito a trasmettere almeno un poco la qualità di questo libro prezioso, la bellezza d’una Opera che si fonde, nella realizzazione d’un evento raro, con la profonda sensibilità incarnata dall’Autore.

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