Rivista internazionale di lingua & letteratura
Browse: Home
20 ottobre 2015 · by Elisa Alfonsini · in Recensioni
Il tocco abarico del dubbio (Fara Editore, 2015)
Leggere Il tocco abarico del dubbio di Angela Caccia è come camminare in una solitaria notte di plenilunio. Tutto tace. La luna illumina le strade solitarie. L’unico rumore è quello dei passi.
Cadenzati.
Ritmici.
A volte si sentono le fronde frusciare e il vento bisbigliare.
Camminando, seguendo i percorsi intellegibili della notte e dell’inconscio, si sente all’improvviso un rumore lontano, impalpabile – un ricordo – che viene dal passato, dai primissimi giorni di vita, fantasmi gentili evocati dalla poesia di Angela Caccia.
Abarico. Parola sconosciuta ai più, indica il punto esatto in cui alla forza gravitazionale della terra subentra quella della luna. In quel preciso punto le due gravità – molto diverse tra loro – si compensano e si equilibrano.
Un termine così scientifico e matematico sembra scontrarsi con la poesia che è bellezza, soggettività, suggestioni ed emozioni per antonomasia. Leggendo la raccolta poetica tutto si schiarisce: in quel momento – o per essere più scientifici in quel punto – di stasi in cui le due gravità si annullano si inserisce il dubbio come pungolo per una recherche interiore che spinge quindi di nuovo al movimento. Quel dubbio, quello stimolo a uscire dalla tranquilla e confortante posizione di equilibrio sembra essere rappresentata dagli enjambement di cui pullula lo stile di Angela Caccia.
Queste improvvise interruzioni del verso sono come voragini in cui la gravità esiste e fa precipitare il lettore al verso successivo, come se volesse rassicurarlo che dopo la caduta c’è sempre qualcosa che lo aspetta: una suggestione, una parola, un volto.
La silloge poetica è suddivisa in cinque parti il cui minimo comune multiplo sembra essere l’albero genealogico – volendo chiamarlo così – della poesia di Angela Caccia.
È quasi impossibile, infatti, non notare l’eredità nerudiana, un ricordo cileno che giunge alla sua apoteosi nella poesia a lui dedicata: “più di lei / amasti l’amore […]”.
Possiamo notare infatti come Angela Caccia si muova tra un verso e l’altro con la stessa grazia di Neruda, comunicando attraverso metonimie e ossimori che mai il lettore avrebbe potuto immaginare, ma grazie a qualche arcana magia risultano conosciute sin da sempre. Chi mai avrebbe pensato a dire “La tua voce ha / fatto un nido sui rami / fogliosi di un noi”, eppure chi, leggendo questi due versi della poesia le labbra al bello non ha pensato che era esattamente quello che ha provato almeno una volta, amando perdutamente qualcuno?
Il compito del poeta non è paradossalmente scrivere poesie né parlare di sentimenti, ma dire con esatte e precise parole ciò che tutti provano o sentono e che non hanno i mezzi o il coraggio per dirlo.
Si nota anche, tra un verso e l’altro, quasi nascosto, un influsso ben più vicino a noi, sia di tempo sia di luogo. Ecco che all’improvviso leggendo le poesie di Caccia ci ricordiamo della nostrana Alda Merini:
“Sono nata il ventuno a primavera
non sapevo che nascere folle
aprire zolle
potesse scatenare tempesta”
(Alda Merini)
“sono nata nel mese
dei morti squillando vita…”
(di stelle grezze)
Come per Alda Merini, Anche Angela Caccia fa percepire nelle sue composizioni un dolore sottile e un amore puro che può essere intravisto solo attraverso la poesia che “per fortunate o abili combinazioni, da più di quando dice”.
Vorrei però poter dire ad Angela Caccia: la tua poesia non dà nulla che sia nuovo, ha una funzione ben più difficile. Ci fa scoprire ciò che non sapevamo o avevamo scordato di avere: è una luce che viene accesa dopo tanti anni in una stanza dimenticata delle nostre anime.
È questo ciò che fa Caccia, poetessa dei giorni nostri, eppure antica e arcana come forse lo era Saffo.
Browse: Home
20 ottobre 2015 · by Elisa Alfonsini · in Recensioni
Il tocco abarico del dubbio (Fara Editore, 2015)
Leggere Il tocco abarico del dubbio di Angela Caccia è come camminare in una solitaria notte di plenilunio. Tutto tace. La luna illumina le strade solitarie. L’unico rumore è quello dei passi.
Cadenzati.
Ritmici.
A volte si sentono le fronde frusciare e il vento bisbigliare.
Camminando, seguendo i percorsi intellegibili della notte e dell’inconscio, si sente all’improvviso un rumore lontano, impalpabile – un ricordo – che viene dal passato, dai primissimi giorni di vita, fantasmi gentili evocati dalla poesia di Angela Caccia.
Abarico. Parola sconosciuta ai più, indica il punto esatto in cui alla forza gravitazionale della terra subentra quella della luna. In quel preciso punto le due gravità – molto diverse tra loro – si compensano e si equilibrano.
Un termine così scientifico e matematico sembra scontrarsi con la poesia che è bellezza, soggettività, suggestioni ed emozioni per antonomasia. Leggendo la raccolta poetica tutto si schiarisce: in quel momento – o per essere più scientifici in quel punto – di stasi in cui le due gravità si annullano si inserisce il dubbio come pungolo per una recherche interiore che spinge quindi di nuovo al movimento. Quel dubbio, quello stimolo a uscire dalla tranquilla e confortante posizione di equilibrio sembra essere rappresentata dagli enjambement di cui pullula lo stile di Angela Caccia.
Queste improvvise interruzioni del verso sono come voragini in cui la gravità esiste e fa precipitare il lettore al verso successivo, come se volesse rassicurarlo che dopo la caduta c’è sempre qualcosa che lo aspetta: una suggestione, una parola, un volto.
La silloge poetica è suddivisa in cinque parti il cui minimo comune multiplo sembra essere l’albero genealogico – volendo chiamarlo così – della poesia di Angela Caccia.
È quasi impossibile, infatti, non notare l’eredità nerudiana, un ricordo cileno che giunge alla sua apoteosi nella poesia a lui dedicata: “più di lei / amasti l’amore […]”.
Possiamo notare infatti come Angela Caccia si muova tra un verso e l’altro con la stessa grazia di Neruda, comunicando attraverso metonimie e ossimori che mai il lettore avrebbe potuto immaginare, ma grazie a qualche arcana magia risultano conosciute sin da sempre. Chi mai avrebbe pensato a dire “La tua voce ha / fatto un nido sui rami / fogliosi di un noi”, eppure chi, leggendo questi due versi della poesia le labbra al bello non ha pensato che era esattamente quello che ha provato almeno una volta, amando perdutamente qualcuno?
Il compito del poeta non è paradossalmente scrivere poesie né parlare di sentimenti, ma dire con esatte e precise parole ciò che tutti provano o sentono e che non hanno i mezzi o il coraggio per dirlo.
Si nota anche, tra un verso e l’altro, quasi nascosto, un influsso ben più vicino a noi, sia di tempo sia di luogo. Ecco che all’improvviso leggendo le poesie di Caccia ci ricordiamo della nostrana Alda Merini:
“Sono nata il ventuno a primavera
non sapevo che nascere folle
aprire zolle
potesse scatenare tempesta”
(Alda Merini)
“sono nata nel mese
dei morti squillando vita…”
(di stelle grezze)
Come per Alda Merini, Anche Angela Caccia fa percepire nelle sue composizioni un dolore sottile e un amore puro che può essere intravisto solo attraverso la poesia che “per fortunate o abili combinazioni, da più di quando dice”.
Vorrei però poter dire ad Angela Caccia: la tua poesia non dà nulla che sia nuovo, ha una funzione ben più difficile. Ci fa scoprire ciò che non sapevamo o avevamo scordato di avere: è una luce che viene accesa dopo tanti anni in una stanza dimenticata delle nostre anime.
È questo ciò che fa Caccia, poetessa dei giorni nostri, eppure antica e arcana come forse lo era Saffo.
Nessun commento:
Posta un commento