giovedì 17 luglio 2014

Mario Fresa. Ritratti di poesia (33)

Una poesia feroce e impura
di Mario Fresa

Franz Krauspenhaar




Scrivere veramente significa, ricorda Wittgenstein, abbandonare trampoli e scale, e restare in piedi, e soli, con l’unico sostegno dei nostri piedi nudi. Ciò impone l’abbandono di un centro rassicurante e, in generale, il rifiuto di una utopistica risposta illuminatrice; e allora, solo allora, quando avremo rinunciato a questi appoggi pietosi, ai trampoli e alle scale (insomma, all’ipocrisia e alla viltà dei nostri quotidiani infingimenti), si smetterà di scrivere per capire, e si deciderà di scrivere per rammentare l’assurdità di voler capire qualcosa (e anche, certo, per mostrare la stessa assurdità di scrivere). La poesia ci dovrebbe trovare proprio così: svestiti e disingannati, coi piedi scoperti e con indosso soltanto le nostre infinite, bizzarre domande, e le nostre incomunicabili ossessioni; e col fardello della nostra vita così inenarrabile e così stupida, così grottesca e così meravigliosa. Un poeta riesce, oggi, a fare ciò? Negli ultimi anni, chi ha frequentato la poesia italiana contemporanea ha dovuto sopportare, nella maggioranza dei casi, la falsissima retorica umanistica o la lamentazione sentimentale; o, peggio, la propensione alla fola carezzevole e sognante. Difficile incontrare un poeta che abbia la penna dura come una lama e il pensiero determinato e crudele, perché onesto e disilluso. Lo abbiamo trovato in Franz Krauspenhaar. La sua ultima raccolta, pubblicata da Marco Saya, uno dei nostri più intelligenti editori di poesia, si presenta con un titolo ch’è un sopraffino e malvagio ossimoro: Biscotti selvaggi. Troverai, in questo libro di fuoco, una specie di immersione nella fanga dell’anti-idilliaco, uno scivolamento incontrastabile nella gioia dell’eresia e dell’erosione. La poesia è questa: grandine, subisso, sproposito, eccedenza. Se ambisce, infatti, a dire la vita, come potrebbe mai conoscere l’equilibrio e la concordanza, la ragionevolezza o il rigore? Non si può rendere forzatamente logica o trasparente la ragna ambigua dell’esistenza: né puoi smagliare, nemmeno un poco, il densissimo tessuto delle sue trame incomprensibili; né presumere di sciogliere l’intrico dei suoi molti, misteriosi nodelli.
Krauspenhaar ha rinunciato alla ricerca delle risoluzioni e delle terapie, e naviga contro, sempre e comunque. La sua poesia, così nuda e disperata, ha il dono raro di una saggezza feroce e dissidente, mai ricompositiva, mai pacificante. Ecco un poeta vero: estremista e tagliente come pochi, e deciso a non risparmiare nulla (soprattutto, pronto a non risparmiare se stesso). Leggete Krauspenhaar e la sua poesia fulminante: col suo prodigioso ritmo, fluviale e forsennato, con la sua allegra braverie dissonante, costruisce una scrittura felicemente impura e inquieta, capace di sprofondare il lettore nel fondo di una tragicomica, instabile e vulcanica galleria di invettive, di gioie improvvise, di denunce deliranti che inceneriscono e disperdono tutte le possibili armonie consolatrici dell’umanismo e delle ideologie, delle fedi e delle speranze, degli accomodamenti e delle conciliazioni.