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Chi
nasce nel sud è depositario di un eredità: può rivendicarla o rinnegarla, può
andarne fiero o vergognarsene, ma mai potrà sfuggirle. (Jean Rouberol)
Anche volendo, mi chiedo come sarebbe possibile sfuggirle.
Il sé si impasta sempre della realtà contingente e l’oggi, poi,
consente di coglierla, tra ricordo e immaginazione, altalenando nelle tre
dimensioni temporali.
È il paradigma poetico di D’Alessio. Il suo presente ha il
luccichio di una finestra lontana, ora chiusa sul tramonto “Mio nonno amava il grande cielo/di questi
monti i boschi senza fine/poi è morto senza avere pretese/e mio zio ha comprato
il sogno” (pag.18), ora schiusa all’ alba “Siamo fili di
speranza lieve/che si apre al mondo clandestina” (pag.40).
Un fiume carsico quella nostalgia, sullo sfondo di ogni verso, nella
pausa di ogni virgola. Rispecchia appieno l’origine del suo nome: nostos
ritorno e algos dolore, il neologismo
appare nella discussione di una laurea in medicina tenutasi a Basilea nel 1688,
“Dissertazio medica de nostalghia”. Una patologia
comune al mercenari svizzeri, pare. Lontani da casa, ‘s’ammalavano’ al solo
suono di una campana che evocava i campanacci al collo di mucche al pascolo su
una terra così pianta e così amata. Solo dopo si capì di quanto slancio
creativo fosse capace quel sentimento, di quanta e quale dolcezza è foriera in
D’Alessio. Una nenia e un inno: il meridione non è solo radice “Canto meridionale
dove sei?/bussi alle porte antiche delle/case, scendi le scale ripide/che vanno
verso il mare/svegli i miti/nel verde dei lecci,/sopra sassi puri/reggi le
armonie dei cieli” (pag.53), è marchio,
essenza, modus vivendi “Le donne di Calvanico/hanno il passo sincero/della gente di
montagna/il silenzio nella bocca/la dolcezza nel cuore” (pag.31).
Ma c’è un altro meridione a lui molto familiare: la direzione Sud è
un viaggio dall’interno e nell’interno, il punto cardinale a cui tende il
cammino introspettivo, un laggiù dove
si discende per incontrarsi conoscersi e familiarizzare con l’io più pudico e
più vero – forse, il più dolente. Se in una geografia spirituale penso all’anima,
come il pezzo più autentico di me, la colloco a sud, lì il sole sarà forte e
sempre allo zenit: non fa ombra. È il “paese dentro”, in Vincenzo D’Alessio è
specchio della sua Campania, com’era, com’è, comunque amata.
C’è un preciso pensiero di Kant che, penso, decifri e chiarifichi
la nostalgia che pregna il libro, “si ha nostalgia non di un paese o
di un luogo ma del tempo vissuto in quel luogo. Si ha nostalgia di come eravamo
noi in quel tempo vissuto in quel luogo. E poiché il tempo è irreversibile,
quando noi torniamo in quel luogo, quel luogo non è più lo stesso che abbiamo
lasciato, e anche noi non siamo più gli stessi, dunque si ha nostalgia di noi
di come eravamo in quel tempo ormai perduto”.
Ma
D’Alessio, se retrocede nel passato, attuando una sorta di faticata curvatura
su se stesso, non è solo per ritrovarsi e ricompattarsi, non resta rinchiuso in
quel bozzolo. Ha qualcos’altro di più urgente e più nobile da svolgere:
ricordare. Il tempo e i tempi hanno già distrutto i fiori, ma che si conservino
almeno le radici!... “Proteggete le tombe dei poeti/che non le raggiunga la
morte/moneta della dimenticanza/pulitele dalla fretta dell’addio” (pag.
41).
È fondato il suo lamento, soffuso o gridato, per un meridione con
un altro cielo, una terra altra rispetto al settentrione “Il Sud ha sapori/di ruggini e tradimenti/del
poco lavoro della sofferenza” (pag.33).
Qui si cresce tutti più terrosi e, così assetati di luce, si fatica di più a
raggiungere ogni sole “Figli lontani dal sole/nelle nebbie tristi di torpore” (pa.33). Non tutti lo sanno, non tutti lo capiscono. Viene facile
e, soprattutto, comodo e sbrigativo, etichettare una viva protesta di puro
vittimismo. Ma la vittima subisce, qui si continua, e da sempre, a combattere
per e a morire di meridione.
Sì, D’Alessio usa parole meridionali, di quelle un po’
curiose a sentirsi, con le vocali aperte - tutta l’acqua dell’Arno non basterebbe
a lavarle, le sue e le mie, e restituirle con una dizione accettabile.
Aperte come braccia…
Mi distraggo sempre al momento del
Padre Nostro: si slanciano a ramo, altre si pongono quasi in posizione di resa,
altre ancora, curve, con le palme in alto … pare che
attendano accolgano cingano. Quelle di Vincenzo le sento possenti: hanno
imparato da tempo ad abbracciare e stare in quell’abbraccio che, nel bene e nel
male, è la vita “al sud”.
Se la sua voce si affievolisse,
saremmo tutti un po’ più poveri.
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