Recensione di Franco Casadei
Un libro di grande respiro (MassimoMorasso, La caccia spirituale, JakaBook, pag. 95. Euro 12), “totale” in
un certo senso.
Un percorso suddiviso in tre
stazioni: la genesi, l’espiazione, l’oscurità.
Nella prima poesia troviamo il
momento dell’alba, il segno dell’origine
– la genesi – il risveglio del giorno
e della creazione. La stessa alba che ritroviamo nell’ultima composizione («un’alba
mite / la nostalgia dell’Eden») che ricompone la drammaticità del vivere («un
cosmo ricomposto /… la meraviglia, all’improvviso, per quello squarcio/ smisurato
fra le nuvole lassù /… E tutta questa chiarità che mi circonda»).
In Genesi, il primo testo, uno
dei più belli in assoluto, («Per ascoltare l’oceano nascosto nelle onde, il
silenzio / al principio e alla fine del respiro / osservo il timido balletto
delle tortore / e provo a dare voce alla finestra della sala / quando è l’alba, l’alba /
che sboccia come l’ultimo dei sogni…»),
si descrive l’inizio del giorno come possibilità di una speranza nuova, benché
l’autore enumeri ricordi, immagini di dolore, intuizioni, appunti, note,
miraggi, preghiere e turbamenti; un diario della sua vita insomma, tormentata («come non pensare alla
fine di una civiltà / se… l’avvento del sole sembra uguale al suo declino»; e
ancora, «l’inferno è l’eterno / tormento di non amare nessuno, / non credere
a niente, non essere mai stato / in nessun pianto»), ma vissuta nella fiducia di
un esito positivo («l’incontro, all’improvviso con la roccia da cui sgorga / un
flusso pullulante senza fine /… ne hanno nascosto il corpo /… oppure sollevandosi,
davvero ha capovolto la natura? »).
E si chiede alla poesia “«il dono della vista più essenziale, /
il senso non carnale che sollevi alla chiaria». E si prosegue in questo percorso della speranza: «così ci tocca di patire il mondo /
sperando che oltre il mondo si spalanchi /… un’oltreumana specie di al di là».
Non manca, pur dentro un cammino
personale, la consapevolezza di una chiamata comune, di un appello alla
condivisione delle nostre umanità: «cosa si deve fare dell’amore / se non
abbiamo neanche la pietà / di chiederci l’un l’altro / la nostra breve storia /… il
cuore semplice della vicenda comune / cosa sono io / cosa sei tu / in questa bolla
d’aria».
E si passa ad Espiazione, con una citazione splendida
della mistica Caterina Fieschi Adorno: «Mi pare essere in questo mondo/ come
quelli che sono fuori di casa loro…»
Si annota una chiara continuità
con la prima stazione, con una rappresentazione originalissima delle anime
purganti, quasi buffa nella prima poesia («Le anime che sono in purgatorio /
non hanno altra elezione che di starci /… neanche possono dire io me ne andrò
prima di quello…»). Come pure pieni
di complicità con le anime purganti appaiono i versi: «Esclusa quella dei
santi/ non c’è felicità comparabile / a quella delle anime del purgatorio //… La
ruggine del peccato è l’impedimento/ ed è il fuoco a consumare la ruggine». Una complicità che - considerata la
quasi impossibilità, se non per i santi, di guadagnarsi in prima istanza il
paradiso – esprime la speranza
certa di potere ambire, prima o poi, al ricongiungimento con Dio. E c’è l’enumerazione
di tutte le piccinerie umane che hanno portato e portano tante anime a dovere
in qualche modo “purgare” le proprie debolezze («quel popolo affannato nei
commerci / che passa il tempo in distrazioni futili //… l’horror vacui… è un
orizzonte…»; si finge «l’un l’altro
di essere felici». E gli
intellettuali pieni di sé che ammaliano i ragazzi che a «loro volta vanno verso il nulla». Tuttavia, anche dentro questo squarcio in negativo, il poeta
trova elementi di rinascita, capisce dove sta il vero di sé («le catene / che
legano le cose a noi mortali / e in alto, nell’aperto, all’Incredibile»). Da cui
l’attesa «di poter volare / oltre i confini della mia memoria». Più
in là, - come già ci
richiamavano Rebora e Montale nei loro versi – dove «le anime del purgatorio /
hanno speranza di vedere quel pane / e di saziarsene».
Infine l’ultima stazione, Le oscurità. Tutto il buio del percorso
umano non distoglie l’uomo, nel suo peregrinare dentro una grande orfanità, dal
potere intravedere ad un certo punto «Un varco celestiale //… l’anima / è attratta
da qualcosa di immortale». «Venga il
Natale e le dolcissime ore buone». «Ora lo so: dentro / accolgo l’Essere e il
suo bene // Tutto/ respira e tutto ringrazia».
Resta
il mistero di questo bene che ci accoglie, non lo possiamo tutto comprendere, «però
nel fuoco dell’amore prende forma //… il male nonostante». «Un cosmo ricomposto
nelle pieghe del pensiero //… quello squarcio / smisurato fra le nuvole lassù //…
E tutta questa chiarità che mi circonda».
Un’opera, questa di Massimo
Morasso, che è un giudizio chiaro, sull’uomo e sul suo destino. Che si distacca
dallo scetticismo che riempie tante pagine della poesia contemporanea. Un libro
coraggioso, maturo, senza alcuna paura di esporsi ad un confronto sul senso
dell’umano. Con una scrittura limpida e di facile accessibilità anche per i non
addetti ai lavori. Un bel contributo che merita di essere letto e fatto
proprio, in quanto rappresenta un aiuto ad avere uno sguardo positivo sulle
cose, senza censurare nulla della fatica del cammino.
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