Enzo Siciliano, parlando della poesia di Claudio Damiani, ha usato la parola “solfeggio” e credo che abbia colto in pienezza il fare di questo poeta che incentra il suo dettato sulla leggerezza, sui minimi sussulti del senso, sulle annotazioni che sembrano marginali e che spesso, invece, risultano essenziali se non capitali nell’economia del discorso poetico. Mi verrebbe da dire che il solfeggiare di Damiani ha la magia di saper cogliere le valenze nascoste della realtà.
Il libro è diviso in otto sezioni
ognuna delle quali affronta specificamente un argomento, ma mi pare che il
tutto si riannodi costantemente al camminare pacato e dolce, a un viaggio in
qualche modo che vuole essere tragitto che porta verso le origini, dove poi
vita e morte si ricongiungono.
Damiani comunque non si affanna a
raccogliere i cocci rimasti per strada, va avanti serenamente e trova l’accento
preciso e deciso che lo arresta, che lo corteggia, che gli ricorda d’esserci
stato e d’esserci ancora, e proprio grazie alla immediatezza degli
incontri, a quell’assaggio che si
fa toccata e fuga. Così ogni immagine, di paesaggio, di persone, di animali, viene
colta in una essenza quasi stilizzata che resta un bianco e nero deciso e
comunque non privo di carezzevoli e mutevoli risonanze. C’è in lui una forza
strana e quasi inavvertita, quella della semplicità assoluta, che riesce a
fermare le concatenazioni degli eventi per un attimo in modo che la “fotografia”
si possa stagliare in un dimensione che possa vivere di se stessa.
Certo, questo modo di procedere
annotando ciò che si dipana dinanzi ai suoi occhi e al suo cuore presuppone la
saggezza, ma non quella irritante e sussiegosa, piuttosto quella che invita,
quella che apre il ventaglio della scelta. Così Damiani diventa proprio quel
tappeto verde di cui parla nel libro, quel prato brucato dai cavalli e da lui
stesso in modo che poi altra erba si rigeneri e cresca fresca e odorosa.
A volte un lettore sprovveduto può
restare sorpreso dalla “ingenuità” di questa poesia che sembra scivolare
rettilinea e graziosa come dentro una giostra per bambini, ma se poi si sofferma
su ciò che Damiani offre si rende conto che si tratta di guizzi di luce colti
nel fulgore più dolce e ammaliante, nel concepimento di incontri essenziali per
la conservazione della dignità umana. Il poeta non forza nulla e non fa
rincorse affannose, non accende falsi lumi e non carica di significati densi i
versi neppure quando parla della morte, affida i suoi messaggi alle cose in sé
ed è perciò che il fico sulla fortezza, i cavalli, i pappagalli, la “Cara Luna”
e la “Cara poesia”, il Grìgolo, lo Schiopparello, Paprika e tutto ciò che ruota
nel fiato del poeta diventano emblemi di una castità sognata e vissuta come gaudio e come esempio da
trasmettere per non coprire il mondo di stracci e farlo invece restare indenne,
solare, aperto al sorriso.
Poesia dunque intrisa di grazia
umana, di cielo sereno, di lingua che sa dire ancora pane al pane e vino al
vino. Poesia, come scrive Emanuele Trevi nel risvolto di copertina, che “oltre il piacere del testo… offre una terapia sottile
ed efficace come solo sanno essere i consigli di chi è capace di curare se
stesso, e non smette mai di farlo”.
Nessun commento:
Posta un commento