Giacomo Leronni
Al
centro della scrittura potentemente lucida e assertiva dell’ultimo libro di
Giacomo Leronni, Le dimore dello spirito
assente (editrice puntoacapo, 2012) sta la consapevolezza di avvertire la
scena del reale come un intrico di forze ostili e minacciose, attraversate sempre
da brandelli di verità inautentiche e illusive. Il
perimetro spaziale nel quale si muovono i versi di Leronni disegna un’intelaiatura
visiva di rigorosa e acuminata asciuttezza, in cui l’assenza di punteggiatura evita,
da una parte, l’enfasi declamatoria e il pathos
di una verbosa ridondanza, ma accentua e svela, dall’altra parte, con una maggiore
e più ossuta durezza, la tragicità misteriosa emanata dai versi, consegnati
alla forza contratta di una comunicazione drammaticamente ansiosa e spezzata.
La
voce di Leronni indaga, con inesausta sollecitudine, i segnali dell’incongruo e
l’inanità della stessa presenza umana; e i conflitti, le lotte, le aspre interrogazioni
sono tutte combattute nell’interiorità dell’io, teatro di incertezze e di
rovina, di insensatezze e di feroci distruzioni. Anche i luoghi e i segnali del
tempo, gli oscuri messaggi delle sue tracce opache, sono percepiti e contemplati
come l’immagine di una perenne e irrefrenabile lacerazione, come l’aprirsi incontrastabile
di un infinito precipizio. La crudele indecifrabilità del mondo affida, così, la
parola poetica alla rilevazione di un deserto nullificante che non concede alcuna
forma germinativa di scioglimenti ricompositivi o di approdi riconcilianti.
La
ricerca di una verità risolutrice preme senza sosta la dolorosa richiesta di ascolto
del poeta.
La
parola si dimostra delusiva e incompleta, fragile e vana: perciò il soggetto monologante
avverte, in ogni istante, il pericolo rovinoso e il mortale ammonimento di una
realtà inaccettabile, registrando l’invasione – se non l’irruzione – di un male
sotterraneo, tanto difficile da individuare, quanto impossibile da fronteggiare
e da respingere. Le
tenebre dell’insignificanza si mostrano come un nugolo estenuante, in cui la forma
desertificata, diresti quasi ossificata dei versi esclude ogni redenzione utopistica,
nel segno di una radicale destituzione di qualsiasi virtù risanatrice del pensiero
poetico: la registrazione di un’assenza
incolmabile si trasforma, dunque, in un esilio del senso e dell’identità, in una
specie di teologia negativa che, stanca di ogni possibile ricerca, si riconsegna
al buio estremo dell’indicibile e dell’inconosciuto.
Il
rumore delle chiavi
la
soglia risorta
all’imbrunire
quando
credi nelle acque
nella
piena fisicità
che
solo la nebbia sa dare
nel
punto in cui s’intorbidano
le
parole del cielo
e il
freddo ascolta i petali
lungo
la prima voce
nell’istante
esatto del tuono
nel
ventre della morte
che
addenta.
Giacomo Leronni (Gioia del
Colle, 1963) è insegnante di lingua francese nella scuola secondaria. Ha pubblicato
molti suoi testi su alcune importanti riviste del settore. Ha vinto, fra gli altri,
per l’inedito, il Premio Nazionale di poesia LericiPea (1998) e il Premio Nazionale
Castelfiorentino (2009). Nel 1999 ha partecipato, per la poesia, al convegno/laboratorio
RicercarE di Reggio Emilia. Polvere del bene (2008; Premio A. Contini Bonacossi
2009 per l’opera prima) è il suo primo
libro. Altri suoi testi inediti sono confluiti nelle antologie Quanti di poesia. Nelle forme la cifra nascosta
di una scrittura straordinaria, a cura di R. Maggiani (2011), Frammenti imprevisti. Antologia della poesia
italiana contemporanea, a cura di A. Spagnuolo (2011) e Dentro il mutamento, a cura di M. Lenti
(2011).
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