Per sortilegio,
un virus maligno
s’acquattò
tra le oblique pieghe
della mente,
affatturato
feticcio
del malocchio,
affanno
di segreti
che non seppi
o mai compresi.
(14 gennaio 2013)
La Poesia dice, ma
nel contempo cela.
Simula di voler mostrare,
svelare; invece, soprattutto nasconde, occulta.
Ha forse un po’ “paura”:
nasce da religioso timore, da una sacra apprensione, da una misteriosa,
inspiegabile inquietudine.
Ciò che dichiara
è (dev’essere?) alla portata di tutti, ma quale mera “forma vuota”, entro cui ciascun
lettore potrà, volendo, situare la propria specifica, personale, inconfondibile,
talora segreta e inconfessabile (persino a lui stesso) esperienza di vita.
Parole,
immagini, metafore, simboli, correlativi oggettivi “appaiono” immediatamente
leggibili nel loro senso e valore letterale (in questo risiede l’universalità della poesia? Nel fatto di
poter essere fruita da tutti quale disponibile contenitore da riempire? E più
funziona come tale, più chiunque ha modo di calarci quel che vuole, più di
autentica lirica si tratta, forse?), ma a cosa esattamente facciano riferimento,
a quale urgente o struggente vissuto siano concretamente riconducibili non lo
sapremo mai.
Neppure il poeta
riesce sempre a leggere fino in fondo oltre
le proprie parole e figure, che a volte lo hanno “immediatamente” catturato,
rapito, stregato, imponendoglisi unicamente in virtù della propria stessa e autonoma
forza/suggestione espressiva, come in un sentore/presentimento di qualcosa “che
non so”… di Verità provenienti “chissà da dove”…
In tale senso,
la poesia confermerebbe la propria natura di barbaglio da indagare, di cui
cercare il bandolo, il punto d’origine, il mistico istante e scatto da cui il gomitolo,
chissà quando, come e perché, prese a svolgersi.
Ma quali
sarebbero i “segreti” del poeta?
Forse neanche
lui li sa, crittati come sono oltre gli invisibili, difensivi muri di fuoco di
quell’inviolabile cifra che è il verbo poetico.
Scrissi, tempo
fa, di una certa personalità “a strati” (a cipolla): da quello “pubblico” al più
interno/interiore/intimo, inconfessabile, ignoto persino al suo custode, per
non dire “carceriere”:
“Come se la nostra
esistenza si ‘avviluppasse’ e quasi raggomitolasse, rannicchiasse (molto probabilmente
a scopo difensivo) su almeno tre strati:
in quello più esterno/esteriore, del tutto pubblico, sociale, alla libera e
piena portata di chiunque, non accade mai nulla che abbia veramente senso; in
quello intermedio si agita e ‘pretende’ di esprimersi tutta una serie di
vissuti, pensieri ed emozioni che riveliamo di rado, e soltanto a certe persone
- non necessariamente pochissime -, durante speciali frangenti della nostra
esistenza; in quello più occulto, interiore, che non palesiamo ad alcuno, ‘riposano’
più o meno indisturbate talune ‘immagini’ di noi, a noi stessi sovente ignote.
Se ne stanno lì i codici della vulnerabilità di cui con rara efficacia scrive
Björn Larsson ne I poeti morti non
scrivono gialli (Iperborea, 2011).”
Nella poesia, infine,
il poeta parla di Sé per non dire
dell’Altro, o dice dell’Altro per non
parlare di Sé.
A tale scopo, fa
talora ricorso ad una sorta di narrazione in terza
persona (metodologia psicoanalitica discretamente efficace), per parlare
di Sé; talaltra, racconta in prima
persona cose che, ad esser precisi, riguardano l’Altro (uomo o donna:
non sempre, non necessariamente quest’ultima, se l’autore è un uomo): ma la
poesia, come s’è detto, simula e dissimula, finge.
“Leggerla” è allora
scavare, far luce entro una tale affascinante reticenza spinta fino alla menzogna.
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