martedì 13 marzo 2012

Su La giusta collera


 Scritti e poesie del disincanto

a cura di Gianmario Lucini
Èpos Collana di poesia politica e sociale
Edizioni CFR – Piateda (SO) 2011



Cade anche oggi il disgusto …
lo raccolgo, a volte …
pregando Dio che …
mi faccia crescere artigli di demenza,
denti di rinuncia e la risata insana
del folle che corre ignudo
a squartare leoni.

(da Il disgusto)


In questo inizio del 2012, Gianmario Lucini è ancora una volta in Sicilia: a Marsala, in forza del solido rapporto di affinità e di stima umana e letteraria instaurato con autori e divulgatori culturali quali Nino Contiliano, Fabio D’Anna e Massimo Pastore, e a Trapani, dove Stefania La Via, Maria Antonietta La Barbera, Fabrizia Sala e Ornella Fulco ne hanno illustrato i tratti salienti dell’opera e letto taluni testi.
A Marsala e a Trapani, come altrove per la nostra penisola, allorché come in queste occasioni se ne creano le condizioni che sono preminentemente culturali, a presentare i suoi lavori. Dico suoi intendendo con ciò non necessariamente le sue personali opere (e ne avrebbe ben donde), quanto piuttosto i libri che egli, nella qualità di manager delle CFR Edizioni, da qualche anno va producendo.

Originario di Sondrio, animatore del sito culturale POIEIN, fondatore e direttore delle CFR Edizioni, critico, filosofo, polemista, poeta, Gianmario Lucini ha, fra gli altri, di suo pubblicato, limitando l’esplorazione all’ultimo decennio: Allegro moderato nel 2001, Sapienziali nel 2010, A futura memoria e Il disgusto nel 2011.
Nunzio Festa, in prefazione a Il disgusto, lo definisce poeta “nordico e altrettanto meridionale”.  
La sua storia infatti lo ha condotto, negli anni 2008 e 2009, in Calabria. Lì ha operato quale volontario presso l’Associazione “Don Milani” di Gioiosa Jonica e tale attività lo ha portato a compenetrarsi, a commiserare, a schierarsi con quella gente e a decidere di spendersi, ancor più di quanto avesse mai fatto in precedenza, contro il male che subissa quella regione e in favore di quella popolazione.
L’esperienza calabrese ha viepiù provato l’animo di Lucini e, benché egli pure riconosca che “la poesia non è certamente l’arma più adatta per vincere le mafie”, essa ha rinsaldato in lui il convincimento che “la poesia, con altre forze sane della società, deve contribuirvi.”


La gente ha voglia di sogni, la gente
crede alle balle di sempre. La gente
ha perso Dio ma ha trovato i ciarlatani
della politica e dell’economia. La gente,
la middle class d’impiegati e d’operai,
crede e non crede, s’incanta, si sveglia,
s’indigna, protesta. I poveri invece
pagano sempre per tutti e in silenzio
perché i poveri non sono la gente
e non s’intruppano a protestare
- hanno imparato soltanto
ad arrangiarsi senza fiatare -. 

(da Il disgusto)
  

In un suo intervento relativo a L’impoetico mafioso, del 2010, Lucini rileva che contrariamente alla poesia nell’attuale società, la poesia nell’età classica era una “poesia epica [che] parlava della pòlis, del suo popolo e della sua vita, dei suoi problemi, dei suoi dubbi, delle sue paure; una poesia capace di stare dentro la società storica e proporsi con il ruolo di interprete dell’umanità più profonda, di metterla in scena nelle sue contraddizioni e nei suoi dolorosi paradossi”.  
Recuperando quell’assunto, la sua ambiva fino a quel punto ad essere la riflessione, segnata dal disgusto per la cultura mafiosa, “sull’ingiustizia e la condizione di un mondo dominato dalla boria tecnologica, servita dalla scienza a sua volta al servizio del potere; un mondo di violenza e di guerre, diviso fra oppressori e oppressi”; riflessione inquadrata nel contesto della vicenda contemporanea di evidente crisi dell’umanesimo e indirizzata a un Paese che “s’è bevuto il cervello”, in cui il “cinismo rimuove il dolore … per gli operai trucidati … sull’altare del capitale”, e “ogni giorno in silenzio assistiamo alla … progressiva disfatta delle coscienze.”


Di quanti silenzi siamo colpevoli? Di quanti
morti ammazzati, di quante
urla soffocate nelle terre d’Africa e d’Asia,
noi, che siamo dentro la logica della rapina?


Per motivi di cronologia e per i nessi di contenuto, La giusta collera, l’opera di cui all’odierno incontro, può considerarsi il naturale seguito de Il disgusto, il lavoro dal quale sono stati tratti i primi due testi letti; potremmo dire che l’impegno individuale de Il disgusto s’è dilatato fino a sfociare nell’impegno collettivo de La giusta collera.

Questa antologia si è prefissa di superare i presupposti de L’impoetico mafioso e de Il disgusto. Essa – asserisce nella introduzione Lucini, che ne è stato il promotore e il curatore – vuole “contribuire al risveglio delle coscienze, degli artisti e degli intellettuali in primis. La raccomandiamo agli insegnanti, perché finalmente si sfati il mito che la politica non deve entrare nelle scuole, un mito sciagurato che ha contributo all’involuzione delle coscienze, alla convinzione che la politica è cosa d’altri. È ora invece – prosegue Lucini – che la politica esca dal Parlamento, che non è il luogo deputato alla politica, ma solo alla rappresentanza della politica. La politica dovrebbe essere fatta nell’agorà, da tutti, perché la politica riguarda tutti.”

E, prevenendo una nostra presumibile domanda, egli così si interroga ed esplica: “Perché collera e non indignazione? Indignazione è una parola fiacca senza nerbo. Collera è più forte; significa la prefigurazione di un’azione contro qualcuno. La collera nasce dal disgusto indotto da una particolare situazione, che monta nel tempo, si radica, cerca un costrutto argomentativo, logico e non soltanto espressivo. La collera non è solo un sentimento, ma anche un atteggiamento”.

La giusta collera è un volume di oltre duecentocinquanta pagine, la cui copertina effigia in negativo il celebre urlo di Edvard Munch.
Lucini utilmente insiste sul sostantivo “collera”; parimenti, però, ritengo ci si debba soffermare sull’aggettivo “giusta”.
Mediante la locuzione “giusta collera”, Lucini chiarisce di intendere non l’ira compulsiva, irrazionale, quanto l’ira scelta con determinazione, l’ira che viene dal cuore, dalla pancia, dalla testa uniti in una sola volontà.
L’aggettivo “giusta” mira, a mio avviso, a connotare la fondatezza dell’atteggiamento al quale poc’anzi si è fatto cenno, l’appropriatezza e la legittimità di questo allorquando da coscienza e atto individuale, esso diviene, attraverso un processo di valutazione critica dei fatti, coscienza e atto collettivi; anela al ripristino di certi principi morali ispirati al rispetto dei diritti altrui che sono stati profanati; designa, in contrapposizione a chi ha agito col deliberato proposito di procurarci del male, un’azione tesa alla riaffermazione del bene, del vero.

Già nella introduzione del libro, Lucini pare, invero, volere accreditare il termine “giusta” evocandone, dalla Bibbia, certe ascendenze. L’episodio al quale egli si riferisce, in Esodo capitolo 14 versi da 21 a 31, attiene alla fuga degli Ebrei dall’Egitto e al famoso passo della divisione del Mar Rosso, allorché il faraone, all’apice della sua ira, lanciò contro i fuggitivi le sue milizie ordinando loro di sterminarli: “Ne seguì la collera giusta di Dio verso i nemici del suo popolo. A Mosè fu ordinato di stendere la mano sul mare, le acque si richiusero e schiacciarono tutti gli egiziani”.
Un altro esempio lo si recupera dal primo libro dei Maccabèi, capitolo 2 versi da 15 a 29: “In quei giorni, i messaggeri del re, incaricati di costringere all’apostasia, vennero nella città di Modin per indurre a offrire sacrifici. Si avvicinò un Giudeo per sacrificare secondo il decreto del re. Ciò vedendo, Mattatìa fu preso da una giusta collera: uccise il messaggero del re e distrusse l’altare. La sua voce tuonò: Chiunque ha zelo per la legge mi segua. Allora molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero nel deserto.”
Ecco Lucini e quegli autori hanno distrutto, frementi, l’“altare” e il libro è il loro “deserto”.

E riportiamo, pure essi rimarchevoli perché provenienti dalla Letteratura, ancora un paio di stralci.
Il primo dal Don Chisciotte di Miguel Cervantes, capitolo XXX: Rintuzzerò la giusta collera che già nel mio petto erasi concitata, rispose Don Chisciotte a Dorotea; il secondo dalla Griselda di Charles Perrault, nella traduzione di Carlo Collodi: Chi anche non crederebbe che Griselda, nella giusta collera, non pianga e si disperi?

Ampliando ulteriormente il ventaglio di analisi, vagliamo altresì rapidamente un paio di accezioni del sostantivo da cui l’aggettivo deriva.
Giustizia, assieme con fortezza, prudenza e temperanza, è una della quattro virtù cardinali e la bilancia ne è l’attributo. William Shakespeare, nondimeno, nel Re Lear ci ammonisce: “Lustra pur i peccati con una laminatura d’oro e la gagliarda lancia della giustizia si spezza e si fa inoffensiva”.
Ci riallacciamo così a quanto appena detto e va da sé che, qualora i due piatti della bilancia non sono più in equilibrio, la giustizia va a farsi benedire; ristabilire l’equilibrio diventa pertanto una urgenza etica, sociale; con la giusta collera, se del caso.

Il libro, uscito nel Novembre 2011, vanta già talune recensioni. Fra esse quella di Fabio D’Anna, uno dei tre autori marsalesi in esso inseriti, unitamente ad Antonino Contiliano e Massimo Pastore. Fabio D’Anna ha recensito l’antologia e nel pezzo, apparso lo stesso mese di Novembre sul quotidiano La Sicilia, fra le altre pregevoli notazioni, si legge: “L’auspicio è che dalla collera che si fa poesia civile possa destarsi l’atavico fatalismo degli italioti che ritengono non ci si altro da fare che tuffarsi nel piccolo recinto del proprio privato. Uno sforzo unanime per unire le dimensione della felicità individuale con quella sociale che si basa sulla giustizia, sull’equità, sulla condivisione dell’etica come lume che guidi la società.”

Il volume reca come titolo interno scritti e immagini per un impegno civile e, nel convincimento che non solo la parola può gridare il disgusto etico-politico della collera, raccoglie anche apprezzabili lavori fotografici e pittorici.
“Per dirla, con don Milani, l’obbedienza non è più una virtù. Questa antologia, i cui autori – illustra Lucini – sono stati chiamati a far gruppo e impegno attorno al tema della collera, nasce perché il poeta, il narratore, il filosofo, l’artista hanno un solo modo per ribellarsi: esprimersi con l’arte, con l’argomentazione, con la conoscenza ereditata dalla storia”. L’intento del libro non è solo “quello della denuncia ma anche quello di incitare alla rivolta morale, all’obiezione di coscienza e alla disobbedienza civile”.

Vicino a noi nello spazio, mi sovviene il pensiero di Paolo Messina, esponente di spicco di quella che è stata, grosso modo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, la stagione denominata Rinnovamento della poesia dialettale siciliana. Scriveva Paolo Messina: “L’impegno non ammette alcuna dipendenza politica, ma punta direttamente sull’uomo e sulla lotta dell’uomo per uscire da una condizione disumana; impegno inteso come partecipazione, anche coi nostri atti di poesia, alla costruzione di una società libera e giusta, cosciente ormai di potere progredire solo nella pace e nella concordia fra i popoli.”

Avrete di certo notato come i termini: impegno, poesia, lotta, giusta, coscienza, ricorrano, allora come ora, colleghino intimamente Sondrio e Palermo.

Come per ogni reazione a caldo essa è scomposta; nel senso che non vi è, né avrebbe potuto né voluto esserci, fra i “protagonisti” di questa avventura, alcuna uniformità di proposta, alcun intruppamento; vi è viceversa, nell’ambito dell’unitarietà del progetto, facoltà di libera espressione per ciascun autore, per cui i testi sono brevi e lunghi, in Italiano e nei Dialetti, in prosa e in poesia e, come detto, vi campeggiano foto, dipinti, disegni, rigorosamente in bianco e nero.

E tuttavia, a ben guardare, un sostrato di raccordo, specie se rapportati a certi venti di secessione che spirano di questi tempi, c’è: tutto il territorio nazionale, l’intera penisola, l’Italia isole comprese vi è presente: da Faenza (RA) a San Paolo Bel Sito (NA), da San Bonifacio (VR) a Teramo (TE), da Tirano (SO) a Grotte (AG), da Schio (VI) a Girasole (OG), da Cordovado (PN) a Manfredonia (FG), da Motta di Livenza (TV) a Terlizzi (BA), da Melzo (MI) a Locri (RC), da Ariano Irpino (AV) a Cesena (FC), da Ripatransone (AP) ad Amatrice (RI), da Sassari a Perugia, da Casale Monferrato (AL) a Marsala (TP), eccetera; e persino Francia, Croazia e Gran Bretagna vi sono ospitate.

I nomi, adesso.
Alcuni sono storici, nel senso che sono “antichi” amici, collaboratori, scrittori che da lunga pezza seguono Lucini, partecipano con affetto e con attenzione alle svariate iniziative da lui suggerite, altri sono acquisizioni e contatti recenti; taluni sono assai noti nel panorama letterario nazionale, altri esordienti; ciò malgrado, ognuno di loro è stato sollecito nel rendere aperta testimonianza del proprio schierasi, tutti, dai ventenni agli ultraottantenni, hanno immediatamente colto l’opportunità di spendersi a favore di un serio disegno.

Ed eccoli, in ordine di ingresso nel libro, fra gli oltre centoventi, (un drappello di) quei nomi: Letizia Lanza, Gianmario Lucini, Nino Contiliano, Erminia Passannanti, Daniela Rinaldi, Massimo Pastore, Tomaso Kemeny, Maurizio A. Molinari, Sebastiano Adernò, Donato Di Poce, Giacomo Vit, Alessandra Palmigiano, Fabio Franzin, Pietro Roversi, Alfredo Panetta, Adam Vaccaro, Maria Pia Quintavalla, Pasquale Vitagliano, Fabio D’Anna, Vincenzo Mastropirro, Paolo Ottaviani, Giorgina Busca Gernetti, Roberto Bertoldo, Giuseppe Panella, a fissare sulla pagina bianca le parole e le immagini staccatesi dalle pareti della loro percezione, il moto del loro animo, la loro visione del mondo.

Scorreremo qui appresso, nello spirito proprio dell’opera di dare un segnale, di divulgare un sentire condiviso, di aggredire e stravolgere l’amara realtà, una rapida rassegna, significativa per incisività, per perizia di esito, per attinenza alla linea programmatica, in una variegata gamma di argomenti, di interessi, di ponderazioni, ma pressoché tutti puntati all’attualità, alla cronaca politica, al contesto sociale nel quale esercitiamo la nostra esistenza, che trovano coronamento nella superba sintesi formulata da Cinzia Cavallaro: “Esiste una rabbia onesta / e una dignità profonda / che urla l’ira / di chi crede ancora / nella possibilità / e nella bellezza dell’uomo”.

Annalisa Macchia e la battaglia civile contro la pena di morte: “Rapido è il cappio … a mordere la vita … Avrà voce di donna il mio dolore”; Guido Oldani e il suicidio nelle patrie galere: “Ha infilato la testa in un sacchetto … il cielo sulla faccia è avvoltolato”; Vanda Guaraglia osserva lapalissiana che “le guerre giuste sempre guerre sono” e Roberto Cogo, quanto ai nostri militari dislocati in ogni dove del mondo in pericolose missioni, che: “Questo non è un lavoro tra gli altri … ammazza … come ti hanno addestrato a fare … o sarai ammazzato … ti avvolgeranno nella bandiera”; Alessandro Salvi indugia sulla restrizione delle libertà civili: “Strana questa nostra epoca in cui / è diventato un lusso pensare”, mentre per contro, con dire provocatorio, Manuel Cohen sostiene che ce ne sono anche di troppe: “libertà di fare, di bisbocciare / liceità fiscale, di licenziare”, e Roberto Maggiani rivolge lo sguardo a quanti, ancora in queste ore, stanno lottando per raggiungerla: “Inneggia a Gheddafi! / Quello invece inneggia ad Allah / e trova la morte assassinato”; Maurizio Soldini ha a cuore i problemi dei giovani: “abitano su scorze di fragilità”; Luca Ariano punta agli scempi prodotti dall’uomo: “È rimasta la carcassa / del palazzo in costruzione, / spolpata da vento e pioggia”; Alfredo Rienzi contempla l’economia globale che ci stritola: “Io sto col mio debito stampato / sul petto come ecchimosi / una virgola oscena in mezzo agli occhi”, e si ha un bel dire, come Sergio Pasquandrea: “sono di sinistra” quando poi nella vita reale, Gero Miceli (nella versione in Italiano del suo testo in dialetto): “Sempre più famiglie / senza lavoro / fanno la fame / per una crisi inventata / dal padrone stampasoldi / che presta a / usura agli Stati”; Giovanni Nuscis in una arguta similitudine assevera che: “La giustizia è come il sole / nel cielo infestato da nubi”; d’altronde, in questo marasma che ci subissa, Carla Guidi si e ci interroga: “Se non noi, chi li ha votati? … Noi abbiamo creduto / al tutto e subito … propinato / col sottile veleno dei media”, e Virginia Murru realizza che: “Non ho che sogni / imbanditi di maestrale / il sole l’hanno impiccato / al frontespizio del tacere / ombra compiacente / dell’ultima omertà”.        
                  

Sentila, sentila bene anche tu
la bufera che viene,
questa tempesta straniera che preme,
che avanza dall’est, dal sud della fame
e sbarca alla vigna ubertosa
dei signori d’Europa e vuole
il lavoro e la casa
e vuole una fetta del sole
che accarezza quest’aiuola felice
del mondo.

(Francesco Sassetto)

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