Scritti e poesie del disincanto
a cura di Gianmario
Lucini
Èpos Collana di
poesia politica e sociale
Edizioni CFR – Piateda
(SO) 2011
Cade anche oggi il
disgusto …
lo raccolgo, a volte
…
pregando Dio che …
mi faccia crescere
artigli di demenza,
denti di rinuncia e
la risata insana
del folle che corre
ignudo
a squartare leoni.
(da Il
disgusto)
In questo inizio del 2012, Gianmario
Lucini è ancora una volta in Sicilia: a Marsala, in forza del solido rapporto
di affinità e di stima umana e letteraria instaurato con autori e divulgatori
culturali quali Nino Contiliano, Fabio D’Anna e Massimo Pastore, e a Trapani, dove
Stefania La Via, Maria Antonietta La Barbera, Fabrizia Sala e Ornella Fulco ne
hanno illustrato i tratti salienti dell’opera e letto taluni testi.
A Marsala e a Trapani, come altrove
per la nostra penisola, allorché come in queste occasioni se ne creano le
condizioni che sono preminentemente culturali, a presentare i suoi lavori. Dico
suoi intendendo con ciò non necessariamente le sue personali opere (e ne
avrebbe ben donde), quanto piuttosto i libri che egli, nella qualità di manager
delle CFR Edizioni, da qualche anno va producendo.
Originario di Sondrio, animatore
del sito culturale POIEIN, fondatore e direttore delle CFR Edizioni, critico, filosofo,
polemista, poeta, Gianmario Lucini ha, fra gli altri, di suo pubblicato,
limitando l’esplorazione all’ultimo decennio: Allegro moderato nel
2001, Sapienziali nel 2010, A futura memoria e Il
disgusto nel 2011.
Nunzio Festa, in prefazione a Il
disgusto, lo definisce poeta “nordico e altrettanto meridionale”.
La sua storia infatti lo ha
condotto, negli anni 2008 e 2009, in Calabria. Lì ha operato quale volontario
presso l’Associazione “Don Milani” di Gioiosa Jonica e tale attività lo ha
portato a compenetrarsi, a commiserare, a schierarsi con quella gente e a
decidere di spendersi, ancor più di quanto avesse mai fatto in precedenza, contro
il male che subissa quella regione e in favore di quella popolazione.
L’esperienza calabrese ha viepiù
provato l’animo di Lucini e, benché egli pure riconosca che “la poesia non è
certamente l’arma più adatta per vincere le mafie”, essa ha rinsaldato in lui il
convincimento che “la poesia, con altre forze sane della società, deve
contribuirvi.”
La gente ha voglia di
sogni, la gente
crede alle balle di
sempre. La gente
ha perso Dio ma ha
trovato i ciarlatani
della politica e
dell’economia. La gente,
la middle class d’impiegati e d’operai,
crede e non crede,
s’incanta, si sveglia,
s’indigna, protesta.
I poveri invece
pagano sempre per
tutti e in silenzio
perché i poveri non
sono la gente
e non s’intruppano a
protestare
- hanno imparato
soltanto
ad arrangiarsi senza
fiatare -.
(da Il
disgusto)
In un suo intervento relativo a L’impoetico
mafioso, del 2010, Lucini rileva che contrariamente alla poesia
nell’attuale società, la poesia nell’età classica era una “poesia epica [che]
parlava della pòlis, del suo popolo e
della sua vita, dei suoi problemi, dei suoi dubbi, delle sue paure; una poesia
capace di stare dentro la società storica e proporsi con il ruolo di interprete
dell’umanità più profonda, di metterla in scena nelle sue contraddizioni e nei
suoi dolorosi paradossi”.
Recuperando quell’assunto, la sua
ambiva fino a quel punto ad essere la riflessione, segnata dal disgusto per la
cultura mafiosa, “sull’ingiustizia e la condizione di un mondo dominato dalla
boria tecnologica, servita dalla scienza a sua volta al servizio del potere; un
mondo di violenza e di guerre, diviso fra oppressori e oppressi”; riflessione inquadrata
nel contesto della vicenda contemporanea di evidente crisi dell’umanesimo e indirizzata
a un Paese che “s’è bevuto il cervello”, in cui il “cinismo rimuove il dolore …
per gli operai trucidati … sull’altare del capitale”, e “ogni giorno in
silenzio assistiamo alla … progressiva disfatta delle coscienze.”
Di quanti silenzi
siamo colpevoli? Di quanti
morti ammazzati, di
quante
urla soffocate nelle
terre d’Africa e d’Asia,
noi, che siamo dentro
la logica della rapina?
Per motivi di cronologia e per i nessi
di contenuto, La giusta collera, l’opera di cui all’odierno incontro, può
considerarsi il naturale seguito de Il disgusto, il lavoro dal quale sono
stati tratti i primi due testi letti; potremmo dire che l’impegno individuale
de Il
disgusto s’è dilatato fino a sfociare nell’impegno collettivo de La
giusta collera.
Questa antologia si è prefissa di superare
i presupposti de L’impoetico mafioso e de Il disgusto. Essa – asserisce nella
introduzione Lucini, che ne è stato il promotore e il curatore – vuole “contribuire
al risveglio delle coscienze, degli artisti e degli intellettuali in primis. La
raccomandiamo agli insegnanti, perché finalmente si sfati il mito che la
politica non deve entrare nelle scuole, un mito sciagurato che ha contributo
all’involuzione delle coscienze, alla convinzione che la politica è cosa
d’altri. È ora invece – prosegue Lucini – che la politica esca dal Parlamento, che
non è il luogo deputato alla politica, ma solo alla rappresentanza della politica. La politica dovrebbe essere fatta
nell’agorà, da tutti, perché la
politica riguarda tutti.”
E, prevenendo una nostra presumibile
domanda, egli così si interroga ed esplica: “Perché collera e non indignazione?
Indignazione è una parola fiacca senza nerbo. Collera è più forte; significa la
prefigurazione di un’azione contro qualcuno. La collera nasce dal disgusto
indotto da una particolare situazione, che monta nel tempo, si radica, cerca un
costrutto argomentativo, logico e non soltanto espressivo. La collera non è
solo un sentimento, ma anche un atteggiamento”.
La giusta collera è un volume di oltre duecentocinquanta pagine, la
cui copertina effigia in negativo il celebre urlo
di Edvard Munch.
Lucini utilmente insiste sul sostantivo
“collera”; parimenti, però, ritengo ci si debba soffermare sull’aggettivo “giusta”.
Mediante la locuzione “giusta
collera”, Lucini chiarisce di intendere non l’ira compulsiva, irrazionale, quanto
l’ira scelta con determinazione, l’ira che viene dal cuore, dalla pancia, dalla
testa uniti in una sola volontà.
L’aggettivo “giusta” mira, a mio
avviso, a connotare la fondatezza dell’atteggiamento al quale poc’anzi si è
fatto cenno, l’appropriatezza e la legittimità di questo allorquando da
coscienza e atto individuale, esso diviene, attraverso un processo di
valutazione critica dei fatti, coscienza e atto collettivi; anela al ripristino
di certi principi morali ispirati al rispetto dei diritti altrui che sono stati
profanati; designa, in contrapposizione a chi ha agito col deliberato proposito
di procurarci del male, un’azione tesa alla riaffermazione del bene, del vero.
Già nella introduzione del libro,
Lucini pare, invero, volere accreditare il termine “giusta” evocandone, dalla
Bibbia, certe ascendenze. L’episodio al quale egli si riferisce, in Esodo
capitolo 14 versi da 21 a 31, attiene alla fuga degli Ebrei dall’Egitto e al
famoso passo della divisione del Mar Rosso, allorché il faraone, all’apice
della sua ira, lanciò contro i fuggitivi le sue milizie ordinando loro di
sterminarli: “Ne seguì la collera giusta
di Dio verso i nemici del suo popolo. A Mosè fu ordinato di stendere la mano
sul mare, le acque si richiusero e schiacciarono tutti gli egiziani”.
Un altro esempio lo si recupera dal
primo libro dei Maccabèi, capitolo 2 versi da 15 a 29: “In quei giorni, i
messaggeri del re, incaricati di costringere all’apostasia, vennero nella città
di Modin per indurre a offrire sacrifici. Si avvicinò un Giudeo per sacrificare
secondo il decreto del re. Ciò vedendo, Mattatìa fu preso da una giusta collera: uccise il messaggero
del re e distrusse l’altare. La sua voce tuonò: Chiunque ha zelo per la legge
mi segua. Allora molti che ricercavano la giustizia e il diritto scesero nel
deserto.”
Ecco Lucini e quegli autori hanno
distrutto, frementi, l’“altare” e il libro è il loro “deserto”.
E riportiamo, pure essi rimarchevoli
perché provenienti dalla Letteratura, ancora un paio di stralci.
Il primo dal Don Chisciotte di
Miguel Cervantes, capitolo XXX: Rintuzzerò la giusta collera che già nel mio petto erasi concitata, rispose Don
Chisciotte a Dorotea; il secondo dalla Griselda di Charles Perrault, nella
traduzione di Carlo Collodi: Chi anche non crederebbe che Griselda, nella giusta collera, non pianga e si
disperi?
Ampliando ulteriormente il ventaglio
di analisi, vagliamo altresì rapidamente un paio di accezioni del sostantivo da
cui l’aggettivo deriva.
Giustizia, assieme con fortezza,
prudenza e temperanza, è una della quattro virtù cardinali e la bilancia ne è l’attributo.
William Shakespeare, nondimeno, nel Re Lear
ci ammonisce: “Lustra pur i peccati con una laminatura d’oro e la gagliarda
lancia della giustizia si spezza e si fa inoffensiva”.
Ci riallacciamo così a quanto
appena detto e va da sé che, qualora i due piatti della bilancia non sono più in
equilibrio, la giustizia va a farsi benedire; ristabilire l’equilibrio diventa pertanto
una urgenza etica, sociale; con la giusta collera, se del caso.
Il libro, uscito nel Novembre
2011, vanta già talune recensioni. Fra esse quella di Fabio D’Anna, uno dei tre
autori marsalesi in esso inseriti, unitamente ad Antonino Contiliano e Massimo
Pastore. Fabio D’Anna ha recensito l’antologia e nel pezzo, apparso lo stesso mese
di Novembre sul quotidiano La Sicilia, fra le altre pregevoli notazioni, si
legge: “L’auspicio è che dalla collera che si fa poesia civile possa destarsi
l’atavico fatalismo degli italioti che ritengono non ci si altro da fare che
tuffarsi nel piccolo recinto del proprio privato. Uno sforzo unanime per unire
le dimensione della felicità individuale con quella sociale che si basa sulla
giustizia, sull’equità, sulla condivisione dell’etica come lume che guidi la
società.”
Il volume reca come titolo
interno scritti e immagini per un impegno
civile e, nel convincimento che non solo la parola può gridare il
disgusto etico-politico della collera, raccoglie anche apprezzabili lavori
fotografici e pittorici.
“Per dirla, con don Milani,
l’obbedienza non è più una virtù. Questa antologia, i cui autori – illustra
Lucini – sono stati chiamati a far gruppo e impegno attorno al tema della
collera, nasce perché il poeta, il narratore, il filosofo, l’artista hanno un
solo modo per ribellarsi: esprimersi con l’arte, con l’argomentazione, con la
conoscenza ereditata dalla storia”. L’intento del libro non è solo “quello
della denuncia ma anche quello di incitare alla rivolta morale, all’obiezione
di coscienza e alla disobbedienza civile”.
Vicino a noi nello spazio, mi
sovviene il pensiero di Paolo Messina, esponente di spicco di quella che è
stata, grosso modo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, la stagione denominata Rinnovamento della poesia dialettale siciliana.
Scriveva Paolo Messina: “L’impegno non ammette alcuna dipendenza
politica, ma punta direttamente sull’uomo e sulla lotta dell’uomo per uscire da
una condizione disumana; impegno
inteso come partecipazione, anche coi nostri atti di poesia, alla costruzione
di una società libera e giusta, cosciente ormai di potere progredire solo nella
pace e nella concordia fra i popoli.”
Avrete di certo notato come i
termini: impegno, poesia, lotta, giusta, coscienza, ricorrano, allora come ora,
colleghino intimamente Sondrio e Palermo.
Come per ogni reazione a caldo
essa è scomposta; nel senso che non vi è, né avrebbe potuto né voluto esserci,
fra i “protagonisti” di questa avventura, alcuna uniformità di proposta, alcun intruppamento;
vi è viceversa, nell’ambito dell’unitarietà del progetto, facoltà di libera espressione
per ciascun autore, per cui i testi sono brevi e lunghi, in Italiano e nei
Dialetti, in prosa e in poesia e, come detto, vi campeggiano foto, dipinti, disegni,
rigorosamente in bianco e nero.
E tuttavia, a ben guardare, un
sostrato di raccordo, specie se rapportati a certi venti di secessione che
spirano di questi tempi, c’è: tutto il territorio nazionale, l’intera penisola,
l’Italia isole comprese vi è presente: da Faenza (RA) a San Paolo Bel Sito
(NA), da San Bonifacio (VR) a Teramo (TE), da Tirano (SO) a Grotte (AG), da
Schio (VI) a Girasole (OG), da Cordovado (PN) a Manfredonia (FG), da Motta di
Livenza (TV) a Terlizzi (BA), da Melzo (MI) a Locri (RC), da Ariano Irpino (AV)
a Cesena (FC), da Ripatransone (AP) ad Amatrice (RI), da Sassari a Perugia, da
Casale Monferrato (AL) a Marsala (TP), eccetera; e persino Francia, Croazia e
Gran Bretagna vi sono ospitate.
I nomi, adesso.
Alcuni sono storici, nel senso
che sono “antichi” amici, collaboratori, scrittori che da lunga pezza seguono
Lucini, partecipano con affetto e con attenzione alle svariate iniziative da
lui suggerite, altri sono acquisizioni e contatti recenti; taluni sono assai
noti nel panorama letterario nazionale, altri esordienti; ciò malgrado, ognuno
di loro è stato sollecito nel rendere aperta testimonianza del proprio
schierasi, tutti, dai ventenni agli ultraottantenni, hanno immediatamente colto
l’opportunità di spendersi a favore di un serio disegno.
Ed
eccoli, in ordine di ingresso nel libro, fra gli oltre centoventi, (un drappello
di) quei nomi: Letizia Lanza, Gianmario Lucini, Nino Contiliano, Erminia
Passannanti, Daniela Rinaldi, Massimo Pastore, Tomaso Kemeny, Maurizio A.
Molinari, Sebastiano Adernò, Donato Di Poce, Giacomo Vit, Alessandra
Palmigiano, Fabio Franzin, Pietro Roversi, Alfredo Panetta, Adam Vaccaro, Maria
Pia Quintavalla, Pasquale Vitagliano, Fabio D’Anna, Vincenzo Mastropirro, Paolo
Ottaviani, Giorgina Busca Gernetti, Roberto Bertoldo, Giuseppe Panella, a
fissare sulla pagina bianca le parole e le immagini staccatesi dalle pareti
della loro percezione, il moto del loro animo, la loro visione del mondo.
Scorreremo qui appresso, nello
spirito proprio dell’opera di dare un segnale, di divulgare un sentire condiviso,
di aggredire e stravolgere l’amara realtà, una rapida rassegna, significativa per
incisività, per perizia di esito, per attinenza alla linea programmatica, in una
variegata gamma di argomenti, di interessi, di ponderazioni, ma pressoché tutti
puntati all’attualità, alla cronaca politica, al contesto sociale nel quale esercitiamo
la nostra esistenza, che trovano coronamento nella superba sintesi formulata da
Cinzia Cavallaro: “Esiste una rabbia onesta / e una dignità profonda / che urla
l’ira / di chi crede ancora / nella possibilità / e nella bellezza dell’uomo”.
Annalisa Macchia e la battaglia
civile contro la pena di morte: “Rapido è il cappio … a mordere la vita … Avrà
voce di donna il mio dolore”; Guido Oldani e il suicidio nelle patrie galere:
“Ha infilato la testa in un sacchetto … il cielo sulla faccia è avvoltolato”; Vanda
Guaraglia osserva lapalissiana che “le guerre giuste sempre guerre sono” e Roberto
Cogo, quanto ai nostri militari dislocati in ogni dove del mondo in pericolose missioni,
che: “Questo non è un lavoro tra gli
altri … ammazza … come ti hanno addestrato a fare … o sarai ammazzato … ti
avvolgeranno nella bandiera”; Alessandro Salvi indugia sulla restrizione delle libertà
civili: “Strana questa nostra epoca in cui / è diventato un lusso pensare”, mentre
per contro, con dire provocatorio, Manuel Cohen sostiene che ce ne sono anche
di troppe: “libertà di fare, di bisbocciare / liceità fiscale, di licenziare”, e
Roberto Maggiani rivolge lo sguardo a quanti, ancora in queste ore, stanno
lottando per raggiungerla: “Inneggia a Gheddafi! / Quello invece inneggia ad
Allah / e trova la morte assassinato”; Maurizio Soldini ha a cuore i problemi
dei giovani: “abitano su scorze di fragilità”; Luca Ariano punta agli scempi prodotti
dall’uomo: “È rimasta la carcassa / del palazzo in costruzione, / spolpata da
vento e pioggia”; Alfredo Rienzi contempla l’economia globale che ci stritola: “Io
sto col mio debito stampato / sul petto come ecchimosi / una virgola oscena in
mezzo agli occhi”, e si ha un bel dire, come Sergio Pasquandrea: “sono di
sinistra” quando poi nella vita reale, Gero Miceli (nella versione in Italiano
del suo testo in dialetto): “Sempre più famiglie / senza lavoro / fanno la fame
/ per una crisi inventata / dal padrone stampasoldi / che presta a / usura agli
Stati”; Giovanni Nuscis in una arguta similitudine assevera che: “La giustizia
è come il sole / nel cielo infestato da nubi”; d’altronde, in questo marasma
che ci subissa, Carla Guidi si e ci interroga: “Se non noi, chi li ha votati? …
Noi abbiamo creduto / al tutto e subito … propinato / col sottile veleno dei
media”, e Virginia Murru realizza che: “Non ho che sogni / imbanditi di
maestrale / il sole l’hanno impiccato / al frontespizio del tacere / ombra
compiacente / dell’ultima omertà”.
Sentila, sentila bene
anche tu
la bufera che viene,
questa tempesta
straniera che preme,
che avanza dall’est,
dal sud della fame
e sbarca alla vigna
ubertosa
dei signori d’Europa
e vuole
il lavoro e la casa
e vuole una fetta del
sole
che accarezza
quest’aiuola felice
del mondo.
(Francesco Sassetto)
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