mercoledì 13 gennaio 2010

Due articoli di Marco Scalabrino sulla poesia dialettale

LA DIALETTALITA’ NEGATA

edizioni cofine Roma 2009  
di Pietro Civitareale

«Gli scritti raccolti in questo volume sono stati redatti dal 1978 al 2008». Esordisce con siffatte parole Pietro Civitareale nella breve premessa a questo prezioso volume di 128 pagine il cui esplicativo sottotitolo è: Annotazioni critiche sulla poesia dialettale contemporanea. E prosegue: «Le motivazioni di queste pagine vanno ricercate in un sentimento elettivo che nutro nei confronti di un genere letterario con il quale è nato e cresciuto il mio interesse per la letteratura, e cioè la poesia in dialetto.»
Nato a Vittorito (AQ) nel 1934 e residente a Firenze, Pietro Civitareale è poeta e narratore, saggista e critico letterario, curatore di antologie di poeti contemporanei e studioso della poesia in dialetto; tradotti in varie lingue, i suoi scritti si trovano su riviste italiane e straniere.     
A partire dalle considerazioni che «lo scrittore dialettale d’oggi è in genere un operatore più evoluto sul piano intellettuale» e pertanto «capace di assorbire, nella sua ricerca poetica, stimoli e motivazioni legati ad una cultura meno circoscritta», che «nell’intento di riappropriarsi delle proprie caratteristiche antropologiche» il fenomeno dialettale «ha assunto un carattere universale, inquadrandosi nella più generale questione della difesa dei patrimoni culturali autoctoni», sfatata una volta per tutte «l’equazione “poesia dialettale = poesia minore”» che «si è rilevata abbastanza falsa», e che non è dunque un caso che «la poesia dialettale d’oggi stia a mano a mano occupando lo spazio di quella in lingua», in cinque capitoli (oltre la citata premessa e il pratico indice dei nomi), egli traccia «un quadro abbastanza credibile» della «straordinaria fioritura della poesia in dialetto in Italia» alla quale «abbiamo assistito in questi ultimi decenni.»
Assai bella la copertina, che presenta in tanti piccoli riquadri le foto di una ventina degli autori che verranno trattati, altre validissime osservazioni costellano tutto il corpo del libro.
Basilare quella che «non è lo strumento linguistico che fa la poesia, ma le capacità creative del poeta e l’uso che egli è in grado di fare della propria lingua», e a seguire quelle altre che solo «difendendo la propria specificità, la poesia in dialetto può competere con quella in lingua e continuare ad affermare una propria ragione di essere», che «rinunciando alla mimesi delle forme epico-realistiche e spogliandosi dei panni del populismo» la poesia “neo-dialettale” «si vota alla soggettività lirica con tutti i suoi ingorghi psicologici e le sue lacerazioni esistenziali» e diventa «una linea manieristica di resistenza.»
Passando ai nomi: Tolmino Baldassari, Nino De Vita, Salvatore Di Marco, Franco Loi, Vincenzo Luciani, Dante Maffia, Biagio Marin, Mario Mastrangelo, Giacomo Noventa, Pier Paolo Pasolini, Franco Scataglini, Achille Serrao, Rocco Vacca, Andrea Zanzotto, in tutto oltre duecento, e quindi alle note sugli stessi, ecco: «la durezza morale di Guerra, il realismo popolare di Buttitta, il virile idillismo di Clemente, il descrittivismo cupo e tagliente di Pierro, il realismo lirico di Pascarella, la favola moralistica di Trilussa», mentre, più estesamente «Mario Dell’Arco oppone una delicatezza sentimentale e un piglio descrittivo sospesi tra stilizzazione e naturalezza», «il Pasolini delle prime poesie in dialetto offre, in un linguaggio raccolto e colorito, uno psicodramma impressionante della vita», «quella di Elio Bartolini è una poesia estremamente intensa nella sua razionale perspicuità, che presenta zone di una forte incisività, a dimostrazione di una maniera con la quale lo stile può essere assunto ad esplicazione dello stato delle cose, a metafora di un rapporto con la situazione. Da qui l’uso, peraltro avarissimo, dell’aggettivazione in funzione sempre di “correzione” della realtà» e ancora Giovanni Nadiani il quale «con una tragica e lucida percezione della realtà, sceglie di testimoniare il disordine che cade sotto il suo sguardo, il forte sentimento del destino umano, il senso desertico dell’immaginario collettivo, nei termini di una tensione espressiva omologabile con una rappresentazione estremamente verticalizzata del mondo.»
«Della poesia in dialetto si è impossessata l’editoria che conta»; ma altrettanto vero, asserisce Pietro Civitareale, è che la poesia che conta non è «appannaggio esclusivo della grande editoria», anzi non di rado «l’editoria di provincia è in grado di esibire poeti di valore.»


IL PARLAR FRANCO



IL PARLAR FRANCO è una Rivista di cultura dialettale e critica letteraria, edita da Pazzini Stampatore Editore in Verucchio (RN), www.pazzinieditore.it, al suo nono anno di vita.
Sedici e mezzo per ventiquattro centimetri, copertina colore rosso carminio, il n°8/9 consta di circa 150 pagine, gode di veste grafica sobria e al contempo curatissima.
Dalla cadenza annuale, Gualtiero De Santi, professore ordinario di Letterature Comparate all’Università “Carlo Bo” di Urbino, ne è il Direttore e Manuel Cohen, Massimo Gigli, Gianfranco Lauretano, Pier Giorgio Pazzini ne costituiscono il Comitato di Redazione.
Giusto all’attenzione di Gualtiero De Santi e di Manuel Cohen debbo la fausta opportunità della conoscenza della Rivista.
Il volume si articola in nove “segmenti”: Editoriale di Gualtiero De Santi, Franco Loi, essere tra le lingue, suddiviso in due parti, la prima loi, versi inediti, di Gualtiero De Santi, la seconda, i “conversari” di un lettore militante, di Manuel Cohen, La Memoria, una voce dal sud simeto: salvo basso, di Renato Pennisi, comprensiva di Inediti dello stesso Basso, Interventi e saggi, fra i quali due testimonianze, a firma di De Santi l’una e di Cohen l’altra, sulla plaquette di Achille Serrao Disperse, Verziere, in cui spicca una nota su Fabio Franzin e la proposta di alcuni suoi testi, In lingua, che propone brani di Franco Buffoni e Gianni D’Elia, Conversazione con Gianni Fucci al traguardo degli ottanta anni, di Rita Giannini, e infine Zibaldone critico, con appunti sui lavori Nelvia Di Monte, Mario Mastrangelo, Pier Mattia Tommasino, tra gli altri.       
Di Franco Loi, del quale sul web abbiamo letto di recente una interessante intervista a cura di Flora Restivo, Gualtiero De Santi fra l’altro scrive: «Il suo “calderone” linguistico lo situa in un’area di post-modernità e apertura globale che soltanto oggi, all’altezza dei processi mondiali e del costante rimestarsi di esperienze e lingue, avvertiamo un po’ più compiutamente.» E Manuel Cohen: «Donchisciottesco e puro, competente in umiltà, Franco Loi sembra avere anch’egli ingaggiato, con le armi di cui dispone, un particolare conflitto contro la sordità di editoria, università, politica, centro, istituzioni. Le declinazioni di quel grande, proteiforme Moloch che lo stesso Loi, con Fortini, chiama “potere”, e che per Pasolini trovava il correlativo in “palazzo”.»
Quanto a Salvo Basso, 1963-2002, tra le voci più originali del panorama dialettale siciliano a cavallo tra i due millenni, Renato Pennisi fra l’altro appunta: «Del 1997 è il primo libro, Quattru Sbrizzi. I testi sono frammenti di ragionamento in prima persona … versi che sembrano gettati sul foglio con trasandata noncuranza, non c’è orpello né compiacenza, sembrano massime, sentenze inappellabili. Tutta la poesia di Salvo Basso è poesia del corpo e del pensiero.» E aggiunge: «Il dialetto di Salvo Basso guarda al dialetto realmente parlato oggi dalle nuove generazioni, fonde e riscrive parole che diventano nuove.»       
E chiudiamo questa rapida passerella con Fabio Franzin, fresco vincitore del Premio Pascoli 2009 con la silloge Fabrica. Manuel Cohen, sulla sua raccolta inedita Doni de l’adìo, rileva: «Fabio Franzin, assieme a Edoardo Zuccato, Ivan Cricco, Salvo Basso, appartiene al manipolo di autori nati negli anni Sessanta che certifichiamo tra le presenze significative della attuale poesia neo-dialettale e non solo. Il [suo] dialetto corrisponde al Veneto trevigiano dell’Opitergino Mottese, parlato a Motta Livenza (TV) dove egli vive. Mi pare che Franzin adotti un linguaggio e uno stile dimessi, apra la lingua a inserti di prosa e understatement … registrando la parlata autoctona in un contesto di mescidazione in atto. Franzin evita l’avvitamento della phoné alle corde del canto e alle trappole della nostalgia, rintuzzando gli agguati dell’elegia con inserti di parentetiche e ricorrendo al discorso libero diretto, virgolettato e in caratteri corsivi. Pur affrontando temi alti (morte, dolore, perdita, distacco) l’autore “si tiene basso”, mostrandoci una umanità a noi prossima, testimoniando un gusto e un sentire per nulla arretrati.»

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