Appunti per una recensione
Tutto ciò che passa sui social, si sa, è evanescente ed effimero: testi letti, digeriti e dimenticati nel giro di pochi minuti. Poesie e racconti, articoli, resoconti e recensioni, tutto scorre rapidamente senza lasciare il segno e bisogna avere una speciale “consistenza” per resistere all’urto, per farsi leggere e per durare nel tempo. questa “consistenza” ce l’ha, eccome. Un’antologia densa di nomi, idee, linee di ricerca, sperimentazioni linguistiche e metriche, un mare magnum nel quale al principio mi sembrava difficile orientarmi, restare a galla.
Qualcuno potrebbe obiettare che la
chiave, l’ago della bussola, è palese fin dal titolo del volume, l’elemento
catalizzatore e unificante è la città di Napoli. Luogo d’origine per alcuni dei
poeti antologizzati, luogo di formazione per altri, luogo di approdo lavorativo
per altri ancora. Tutti i poeti presenti in Napolesìa hanno un qualche
legame con la città, l’hanno vissuta, attraversata, e per fortuna oltre-passata,
nel senso che sono “passati oltre”, non sono rimasti invischiati, intrappolati
nelle maglie strette della napoletanità a tutti costi. Insomma, non è certo la napoletanità
e/o napolitudine il criterio ideo-estetico che ha orientato i curatori
nell’allestimento di questa antologia
Ma è ovvio che un criterio
qualsiasi, i curatori di una antologia, lo devono avere. Naturalmente,
allestire antologie, non significa ricostruire un canone di cui nessuno sente
più la necessità, ma poeti, critici e intellettuali hanno oggi più che mai la
responsabilità di scegliere, di selezionare e, perché no, anche di guidare i
lettori nelle scelte, dal momento che nella presunta democrazia del web tutti
si sentono legittimati a pubblicare pensierini spacciandoli per versi (Tricarico
si chiede se si tratti di post-poesia, ma qualche dubbio ce l’ho). L’antologia,
insomma, non è affatto un “oggetto desueto”, ma anzi è un oggetto attualissimo
e necessario.
Detto
ciò, qual è il criterio utilizzato da Ariano e Tricarico? I due curatori nella
prefazione ci mettono in guardia sulla difficoltà di applicare “un criterio
rigido” di selezione: siamo dinanzi ad “un contemporaneo troppo frantumato e
magmatico” per tentare un’opera classificatoria. Ammettere la difficoltà, però,
non significa sfuggire a “responsabilità curatoriali”,
ma prendere atto che “si può solo lavorare sull’opera transitoria, sulla
comunità parziale, sui processi in atto”: mettersi al servizio dei poeti (e non
viceversa), far dialogare i testi tra loro per far emergere una attitudine alla
ricerca e alla sperimentazione che è l’unico vero elemento unificante della
raccolta …insomma non provare a teorizzare a tutti i costi una “linea
napoletana”.
È ovvio che Napoli c’è, che è presente
in qualche modo, ma i napolesiani hanno saputo masticare, ingoiare,
metabolizzare gli input di una città insieme estatica ed infera (come ce l’ha descritta
Annamaria Ortese), che per sua natura tende a fagocitare chi ci vive, ma anche
chi è solo di passaggio, generando la cosiddetta “napolitudine”. Gli aggettivi
per descrivere Napoli si sono sprecati nel corso degli anni: città
stratificata, città porosa, città verticale. A questi, oggi, ne vanno aggiunti
altri che fanno riferimento alla recente turistificazione della città
che si è trasformata in una sorta di Luna park per viaggiatori
frettolosi, poco attenti alla storia e all’arte, ma interessatissimi a cuoppi,
pizze e sfogliatelle.
Per fortuna i curatori e gli autori
di Napolesìa, vol. I e vol. II, nulla hanno a che fare con gli
stereotipi della napoletanità. Per loro Napoli non è uno stereotipo quanto piuttosto
un archetipo, una forma originaria, un’immagine primordiale, profonda e
mutevole, “magma tellurico”, nel quale i napolesiani si sono immersi,
anche solo temporaneamente, per riemergere e farsi sentire in un mondo in cui i
poeti sono spesso ridotti al silenzio.
Il problema è proprio questo: come
farsi ascoltare in un contesto dominato da un frastuono costante e soverchiante
creato dai media e dai social, un rumore di fondo che lascia ben poco spazio
alla voce dei poeti che pure devono farsi largo, ma non estraniandosi, quanto
piuttosto accettando le regole del gioco. Inutile arroccarsi in torri d’avorio,
vagheggiando una linea orfica della poesia non più praticabile, almeno da
Montale in poi; e rinunciare alla vocazione orfico-sapienziale della poesia non
significa abdicare alla funzione poetica e soprattutto non significa abolire
l’io, la soggettività.
Anzi, molte poesie di questa
raccolta sono incentrate su un io lirico che non sempre coincide con l’io
empirico (perché non sempre dire “io” in poesia significa cedere
all’autobiografismo). L’io dei napolesiani spesso si maschera, si moltiplica, si
frantuma e si “rattoppa”, in molti casi si definisce e acquista senso in
relazione ad un “tu” allocutorio, si ritrova in un ricordo lontano oppure si
annulla in un paesaggio (che non e necessariamente quello di Napoli).
In ogni caso l’Io c’è, è presente con
un’azione che vorrei definire “filtrante”: il poeta non si isola rispetto alla
realtà, anche quella più disturbante, inquinata, ipertrofica o ipertecnologica,
ed è in grado di scomporla, sviscerarla, appunto filtrarla in virtù di un
linguaggio mai banale o banalizzante. Anzi è proprio attraverso l’espressione,
la parola (parola non assertiva, ma neppure inibita, passiva) che questa realtà
filtrata riacquista senso e consistenza.
Nei testi dei napolesiani, diversi
per formazione, per esperienze e per generazione, si sente il “respiro” di
Napoli, una capacità di assorbire ed espellere, di catturare l’anima delle cose
e di restituirla sotto forma di parole dense, cariche di processi emotivi e di
tradurla in immagini ricche di sovrasenso.
Siamo nel territorio dell’anti-poesia?
Probabilmente sì, quella aperta ad ogni sollecitazione esterna, ad ogni
impulso, pronta ad accogliere anche il brutto, l’inestetico, la volgarità e
l’insensatezza. Almeno da Montale in poi, è inevitabile. Ma per fortuna – per
rispondere a Tricarico e Ariano - non siamo ancora nel territorio della
post-poesia, quella effimera e inconsistente al pari dei post sui social o su
whatsapp o quella algida e inquietante che da qui a breve sarà prodotta
dall’IA.
ALESSANDRA OTTIERI è dottore di
ricerca in Italianistica (Università “Federico II” di Napoli e Università degli
Studi di Salerno) ed ha insegnato Letteratura Italiana Contemporanea presso il
Dipartimento di Studi Umanistici (Asaspac) dell’Università “Federico II” di
Napoli (2019-2022). Tra le sue pubblicazioni: Fillìa: un percorso futurista:
da ‘Dinamite’ al Jazz band (1999; II ed. 2012) I numeri, le parole. Sul ‘Furor mathematicus’ di Leonardo Sinisgalli (2002);
L’esperienza dell’impuro. Filosofia,
fisiologia, chimica, arte e altre “impurità” nella scrittura di Valéry,
Ungaretti, Sinisgalli, Levi (2006). Studiosa delle avanguardie e di poeti
del Novecento, ha pubblicato studi sul Futurismo, Sinisgalli, Caproni, Ungaretti, P. Levi, Scialoja.


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