De conosolatione Poesiae
Su Ogni cosa che cade ha il suo rumore di Carla De Angelis
recensione di Gianpaolo Anderlini
In omni aduersitate fortunae
infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem
(Severino Boezio)
Il titolo della nuova raccolta poetica di Carla De Angelis, Ogni cosa che cade ha il suo rumore, tratto dalla poesia senza titolo di p. 19, si presenta come un endecasillabo a maiore perfetto. È questo un tratto particolare e significativo perché Carla De Angelis predilige la metrica delle parole e dei pensieri, e non si affida alle strutture ritmiche codificate tanto amate dai Poeti laureati (e anche, aggiungo, da chi scrive queste note).
Non è importante se sia solo sensibilità ritmica o se l’Autrice abbia voluto dare risalto a questa specifica struttura metrica, quello che importa è che è così e, come tale, chiama il lettore ad interrogarsi sul senso e sul valore di questa accattivante raccolta poetica già a partire dal titolo.
Il titolo, infatti, è un verso che intriga e che cattura.
Il ritmo.
Il susseguirsi di parole bisillabe che si aprono nel trisillabo finale.
L’allitterazione che gioca sull’impronta fonemica.
La verità universale detta con la semplicità di chi solo con parole fa cadere il velo di Maya e ci rivela il volto vero delle cose e della vita.
Se ogni cosa che cade ha il suo rumore, solo la poesia è in grado di rendere sensibile il nostro orecchio e di farci udire lo specifico rumore (fosse anche il silenzio di una foglia) di ogni cosa che cade lentamente o che precipita.
La poesia, allora, è una cosa seria e non un semplice andare a capo o un giocare con le parole e le loro congiunzioni.
La poesia è il vento che disperde le nuvole e ci mostra di nuovo il sole.
La poesia è l’eco di ciò che non riusciamo a dire
La poesia è l’alito divino che ci inonda.
La poesia è il mare in cui torniamo a nascere.
La poesia è lo specchio che riflette l’infinito.
La poesia è la mano che ci risolleva.
La poesia è in-canto.
La poesia è… (ad libitum)
Il libro di Carla è un viaggio negli infiniti volti della poesia; è un mostrare la faccia del dolore, è il canto della quotidiana fatica del vivere, è la risacca dei pensieri che non ci abbandonano, è la certezza incerta che il volto delle cose e della vita può cambiare, è il dono della cocciuta costanza a traguardare altrove, è lo scrigno dei sogni, è la dolcezza amara di parole condivise, è pane che nutre e che non sfama.
È poesia.
La prima chiave di lettura di questi intensi e a volte devastanti versi è sul senso del fare poesia (non dell’essere poeta), sul cammino delle parole che si fanno versi, sulla fatica del vivere il mistero della parola che si trasfigura.
È, se si vuole, un discorso sulla poetica dell’Autrice, una poetica induttiva, in parte dichiarata e in parte lasciata al giogo delle parole; una poetica, in parte, definita in forma implicita, per viam negationis o, se si vuole, per semplice ironia:
Se rubo una parola qua e là
forse scrivo una poesia
Una parola di lato
una in alto
una in basso
Rubo anche le virgole e i punti
uno interrogativo e uno esclamativo
uno che sia dubbioso e uno deciso
Che fatica!
Meglio il divano e un amore da accarezzare (p. 21)
Se si prova a scorrere l’intero libro, pagina dopo pagina, anche senza leggere, non si trova traccia di questa dichiarazione di intenti poetici.
I versi sono tutti allineati a sinistra.
L’interpunzione è quasi del tutto assente:
- virgole: zero
- punti fermi: uno (p. 48)
- punti interrogativi: 6 (pp. 13, 29, 362, 39, 41)
- punti esclamativi: 3 (21, 37, 44) [Aggiungo altri elementi grafici. Trattino separatore: 2 (p 9, 29, 38); parentesi tonde: 10 (pp. 15, 27, 38, 43, 48, 51, 52, 56, 60); virgolette alte: 5 (pp. 29, 37, 39, 46).]
È una poetica sobria.
Minimalista.
Senza fronzoli retorici e la meraviglia nasce e cresce, parola dopo parola, verso dopo verso, poesia dopo poesia, dalle parole che emergono dal mare della consapevolezza, nascoste nel giardino segreto dei pensieri che non cessano di essere pensati.
Se non le catturi sfuggono
nascono altre parole a servire l’arte
che danza e tramanda
senza inganni
così le parole ci onorano
Ho appena catturato un articolo
vuole posarsi da qualche parte (p. 20)
E cos’è la poesia se non “l’arte che danza e tramanda”?
E cosa sono le parole se non la vita che ci raggiunge e non ci lascia? L’emergere dal tonfo nell’abisso in cui ancora non sappiamo di essere caduti?
E le parole, allora, si fanno le parole non dette e che più non si possono dire, perché ogni parola ha il suo tempo, il suo luogo e la persona che l’attende:
Giorno dopo giorno rastrello il giardino
raccolgo i pensieri rimasti sospesi
appendo le parole non dette
gli abbracci rimandati
le lettere nel cassetto
soffio sulla polvere e sulle lacrime
di dolore di gioia di speranza
(p. 27, vv. 13-19). [I versi citati sono ripetuti uguali nella poesia di p. 24, vv. 2-8. La poesia di p. 24 è ripetuta uguale, verso dopo verso, nella poesia di p. 27, vv. 12-21. La prospettiva ora è diversa ed ha a che fare con lo spalare la terra fino alle radici dell’albero delle parole.]
E le parole dette (e quelle scritte)?
Quelle non tornano, vagano nell’aria e forse si perdono, ma lasciano l’impronta incancellabile del loro essere state, di ciò che hanno creato, di ciò che hanno distrutto, di ciò che potevano cambiare, delle lacrime che potevano asciugare, del sorriso che hanno regalato o affogato in un singulto:
Chiederò scusa per le parole dette
per quelle scritte
per i silenzi il timore e la rabbia.
(Il tè è una pausa lunga fra le parole) (p. 48)
Poi, nel tempo della primavera, quando tutto rinasce e il cielo splende di nuovo, c’è come la memoria lunga dell’inverno che non ci abbandona e che ancora non ci lascia riprendere la meticolosa cura quotidiana delle cose e dell’altro (degli altri), e le parole, appena uscite dall’inverno, ancora, non hanno voce e rimangono afone:
Articolo parole che rimangono afone
il vento porta le nuvole
Per il sereno c’è tempo
ancora non raffiguro giardini
(p. 54, vv. 8-11)
Tra tutte le parole del libro, parole che continuano ad essere afone fino a che l’occhio di chi legge non le pronuncia nel suo foro interiore, una parola si staglia, urla e lascia intravedere i segreti del marmo, la scultura che nasconde. [Si veda p. 51, vv. 4-6]
Questa parola è “dolore”.
La parola che percorre tutto il libro e che lo chiude:
Gli amici portano affetto
ma non si accorgono che quella
è la tua poltrona
e si siedono
(Provo dolore) (p. 60)
Le ultime parole di un libro di poesia sono da prendere sul serio, sono una confessione poetica. Non è l’incipit (come accadrebbe nella narrativa) a dirci di che cosa stiamo parlando, è l’explicit.
Il dolore, allora, è la seconda, ma forse la più importante, chiave di lettura della via dolorosa che Carla ha tracciato nelle sue poesie.
Il dolore.
La morte.
La distanza incolmabile.
L’assenza che è (ancora e sempre) presenza.
Gli oggetti, le parole, i ricordi.
I “perché?”.
Il camminare insieme.
I tempi suoi e i tuoi.
Il perdersi.
La tempesta.
La quiete che non giunge.
Il vuoto.
Il nulla.
Il tutto.
Il particolare.
L’universale.
Sì, il particolare, perché chi scrive poesia non può sfuggire a se stesso e il peso di ciò che è e di ciò che è stato grava sul cuore, sui pensieri e sulla mano che dispone sul foglio le parole.
Ecco un passo di particolare forza evocativa:
Un banchetto colorato per te
fra le stelle
per un saluto alla vita
Ti accolga un amore più grande
Le parole fluttuano senza ordine
nel mare amato insieme a remare i giorni
a volte facili
spesso difficili
con voce alt qualche lacrima qualche sorriso
alla vita
ora stringo aria
non riesco a trovarti
mi sfuggi
devi diventare senza dolore
un ricordo
un pensiero profondo
che s’annida come un richiamo a voce piena
piango (p. 42)
È il tempo del pianto.
Quel verso finale chiuso in una sola parola, “piango”, resta sospeso tra l’impossibilità di stringere chi non c’è più e la ricomposizione del dolore dell’assenza.
Quel “piango” ha un tratto particolare: è l’unico verso isolato ad essere scritto con la prima lettera in minuscolo e non in maiuscolo. Un particolare che ci insegna che ciò che di profondo siamo è, sempre e solo, nei particolari.
E chi può dar voce ai particolari se non la poesia?
Sì, l’universale, perché, quando chi scrive poesia dice “io”, forse parla di sé ma e, mentre parla di sé, scava nel profondo dell’animo e delle vicende umane e trova, non la via della consolazione (perché, si voglia o no, la poesia non consola), ma la sympathéia, il senso del comune soffrire, dell’affondare senza annegare, del non avere le risposte ai “perché” che forse, qui ed ora, non hanno o non possono avere risposta, e, se l’hanno, non risponde perché dolore genera dolore e domanda genera domanda.
Solo un esempio.
Ci sarà il tempo della quiete
L’orizzonte è lontano
Ci sarà (p. 40)
È propria la capacità di attingere l’universale che fa dei versi di Carla poesia che ci prende per mano e ci accompagna, come farebbe un amico che ci conosce, nel viaggio della vita troppo spesso senza meta (o verso una meta che non conosciamo). Ed è per questo, come afferma Stefano Martello, che “leggere le sue poesie ci rende migliori” (p. 63).
Camminiamo, allora, sulle orme dei suoi versi e proviamo ad essere migliori.
Prima orma.
(So di dovere scegliere ad una condizione
non devo danneggiare alcuno) (p. 47)
È la sapienza antica.
È la sapienza popolare.
È la “regola d’oro” che ci insegna qual è la strada da seguire senza incorrere nel tragico errore (o nell’illusione) di volere fare il bene altrui ad ogni costo.
Seconda orma.
Ogni cosa che cade ha il suo rumore
vorrei sentire scorrere ogni senso e riconoscere
la spinta del tempo passato
le mani unite in uno scambio di gesti di pace
insieme
Perché da soli non è facile
nemmeno riconoscersi (p. 19)
Il senso dell’esser-ci è nell’insieme perché nessun uomo è un’isola. Siamo arcipelaghi di isole unite da strade sotto il pelo dell’acqua, unite e comunicanti come le radici degli alberi in un bosco.
È solo insieme che possiamo riconoscerci e unire le mani in uno scambio vicendevole di gesti di pace.
Oltre il silenzio,
Oltre l’indifferenza.
Senza retorica.
Con gli occhi, con il cuore, con le mani pronte a seminare pace.
Nell’attesa attiva intrecciando i fili della speranza:
Ci sarà dato il tempo
di sbagliare e correggere
di seminare e di raccogliere (p. 18, vv. 12-14)
Terza orma.
Bambini cercano cibo tra le case e le macerie
il dolore entra ed esce
non può essere trattenuto
da nessuna finestra
Qui carrelli pieni corrono
nessun semaforo li ferma o ne rallenta la corsa
Nella grotta c’è un pianto
he seppur lieve inonda il mondo (Natale, p. 31, vv. 13-20) [Natale è una delle sole tre poesie che hanno il titolo. Le altre due sono: Estate (p. 55); L’origine delle cose (p. 59). Lo stesso tema ritorna anche nella poesia di p. 22: Appena fuori la grotta / lampi di pianti e case distrutte // Tu continui ad addobbare l’albero e a fare il presepe (vv. 19-21).
Qui.
Là.
Se il Natale è un tempo e un luogo, in ogni Natale non si può non avere a che fare con il luogo e, quando in quel luogo i bambini soffrono, non c’è più in quella grotta il sorriso di gioia che dà speranza al mondo ma un pianto lieve che trasborda e inonda il mondo.
Ma noi, presi dalla vuota retorica e dal mercato del Natale, quel pianto non lo sentiamo e non l’ascoltiamo.
Il dolore resta dolore e la fame fame.
Eppure, se lo vogliamo, possiamo costruire un mondo nuovo ed essere noi i protagonisti del presepe, pronti ad andare per il mondo a riparare (ognuno come sa e come può) il mondo:
Quest’anno una sorta di malinconia mi prende
nello spogliare l’albero di Natale
nell’incartare i protagonisti del presepe
allora metto tutto in una scatola trasparente
la lascio aperta così
quando vogliono possono
andare per il mondo
il boscaiolo a proteggere gli alberi
il suonatore di flquto a incantare i bambini
a fare crescere la frutta
a far sgorgare il latte che sfama
a inchiodare la guerra e cantar di pace
la portatrice di acqua nel deserto a dissetare
Se vogliono il prossimo anno
possono tornare (p. 32)
C’è, dunque, il tempo della festa e il tempo di “andare per il mondo” a fare ciò che ognuno, nessuno escluso, sa e può fare per rendere migliore il mondo.
È che, purtroppo, non lo sappiamo di essere quei personaggi del presepe e ce ne stiamo chiusi nella scatola che ci contiene e ci consola e, nello stesso tempo, ci spegne e ci vuole lì nell’inutile attesa di un altro tempo per essere la maschera di noi stessi.
Usciamo, allora, e andiamo incontro al mondo.
Tu cosa vuoi, cosa sai fare?
Io provo a inchiodare la guerra e cantar di pace.
Può darsi, forse, che basti prendersi cura del proprio giardino.
10 agosto ’25

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