mercoledì 13 agosto 2025

“… il mare in cui torniamo a nascere. … un viaggio negli infiniti volti della poesia …”

 

De conosolatione Poesiae

Su Ogni cosa che cade ha il suo rumore di Carla De Angelis


recensione di Gianpaolo Anderlini




In omni aduersitate fortunae 

infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem

(Severino Boezio)


Il titolo della nuova raccolta poetica di Carla De Angelis, Ogni cosa che cade ha il suo rumore, tratto dalla poesia senza titolo di p. 19, si presenta come un endecasillabo a maiore perfetto. È questo un tratto particolare e significativo perché Carla De Angelis predilige la metrica delle parole e dei pensieri, e non si affida alle strutture ritmiche codificate tanto amate dai Poeti laureati (e anche, aggiungo, da chi scrive queste note).

Non è importante se sia solo sensibilità ritmica o se l’Autrice abbia voluto dare risalto a questa specifica struttura metrica, quello che importa è che è così e, come tale, chiama il lettore ad interrogarsi sul senso e sul valore di questa accattivante raccolta poetica già a partire dal titolo.

Il titolo, infatti, è un verso che intriga e che cattura.

Il ritmo.

Il susseguirsi di parole bisillabe che si aprono nel trisillabo finale.

L’allitterazione che gioca sull’impronta fonemica.

La verità universale detta con la semplicità di chi solo con parole fa cadere il velo di Maya e ci rivela il volto vero delle cose e della vita.

Se ogni cosa che cade ha il suo rumore, solo la poesia è in grado di rendere sensibile il nostro orecchio e di farci udire lo specifico rumore (fosse anche il silenzio di una foglia) di ogni cosa che cade lentamente o che precipita.

La poesia, allora, è una cosa seria e non un semplice andare a capo o un giocare con le parole e le loro congiunzioni.

La poesia è il vento che disperde le nuvole e ci mostra di nuovo il sole.

La poesia è l’eco di ciò che non riusciamo a dire

La poesia è l’alito divino che ci inonda.

La poesia è il mare in cui torniamo a nascere.

La poesia è lo specchio che riflette l’infinito.

La poesia è la mano che ci risolleva.

La poesia è in-canto.

La poesia è… (ad libitum)


Il libro di Carla è un viaggio negli infiniti volti della poesia; è un mostrare la faccia del dolore, è il canto della quotidiana fatica del vivere, è la risacca dei pensieri che non ci abbandonano, è la certezza incerta che il volto delle cose e della vita può cambiare, è il dono della cocciuta costanza a traguardare altrove, è lo scrigno dei sogni, è la dolcezza amara di parole condivise, è pane che nutre e che non sfama.

È poesia.

La prima chiave di lettura di questi intensi e a volte devastanti versi è sul senso del fare poesia (non dell’essere poeta), sul cammino delle parole che si fanno versi, sulla fatica del vivere il mistero della parola che si trasfigura.

È, se si vuole, un discorso sulla poetica dell’Autrice, una poetica induttiva, in parte dichiarata e in parte lasciata al giogo delle parole; una poetica, in parte, definita in forma implicita, per viam negationis o, se si vuole, per semplice ironia:


Se rubo una parola qua e là

forse scrivo una poesia


Una parola di lato

una in alto

una in basso


Rubo anche le virgole e i punti

uno interrogativo e uno esclamativo

uno che sia dubbioso e uno deciso


Che fatica!

Meglio il divano e un amore da accarezzare (p. 21)


Se si prova a scorrere l’intero libro, pagina dopo pagina, anche senza leggere, non si trova traccia di questa dichiarazione di intenti poetici.

I versi sono tutti allineati a sinistra.

L’interpunzione è quasi del tutto assente:

  • virgole: zero
  • punti fermi: uno (p. 48)
  • punti interrogativi: 6 (pp. 13, 29, 362, 39, 41)
  • punti esclamativi: 3 (21, 37, 44) [Aggiungo altri elementi grafici. Trattino separatore: 2 (p 9, 29, 38); parentesi tonde: 10 (pp. 15, 27, 38, 43, 48, 51, 52, 56, 60); virgolette alte: 5 (pp. 29, 37, 39, 46).]

    L’unico elemento grafico costante è la lettera maiuscola ad inizio di strofa o di verso isolato e dopo un punto esclamativo o interrogativo.

    È una poetica sobria.
    Minimalista.
    Senza fronzoli retorici e la meraviglia nasce e cresce, parola dopo parola, verso dopo verso, poesia dopo poesia, dalle parole che emergono dal mare della consapevolezza, nascoste nel giardino segreto dei pensieri che non cessano di essere pensati.


Se non le catturi sfuggono

nascono altre parole a servire l’arte 

che danza e tramanda

senza inganni

così le parole ci onorano


Ho appena catturato un articolo

vuole posarsi da qualche parte (p. 20)


E cos’è la poesia se non “l’arte che danza e tramanda”?

E cosa sono le parole se non la vita che ci raggiunge e non ci lascia? L’emergere dal tonfo nell’abisso in cui ancora non sappiamo di essere caduti?

E le parole, allora, si fanno le parole non dette e che più non si possono dire, perché ogni parola ha il suo tempo, il suo luogo e la persona che l’attende:


Giorno dopo giorno rastrello il giardino

raccolgo i pensieri rimasti sospesi

appendo le parole non dette

gli abbracci rimandati

le lettere nel cassetto

soffio sulla polvere e sulle lacrime

di dolore di gioia di speranza

(p. 27, vv. 13-19). [I versi citati sono ripetuti uguali nella poesia di p. 24, vv. 2-8. La poesia di p. 24 è ripetuta uguale, verso dopo verso, nella poesia di p. 27, vv. 12-21. La prospettiva ora è diversa ed ha a che fare con lo spalare la terra fino alle radici dell’albero delle parole.]


E le parole dette (e quelle scritte)?

Quelle non tornano, vagano nell’aria e forse si perdono, ma lasciano l’impronta incancellabile del loro essere state, di ciò che hanno creato, di ciò che hanno distrutto, di ciò che potevano cambiare, delle lacrime che potevano asciugare, del sorriso che hanno regalato o affogato in un singulto:


Chiederò scusa per le parole dette

per quelle scritte

per i silenzi il timore e la rabbia.


(Il tè è una pausa lunga fra le parole) (p. 48)


Poi, nel tempo della primavera, quando tutto rinasce e il cielo splende di nuovo, c’è come la memoria lunga dell’inverno che non ci abbandona e che ancora non ci lascia riprendere la meticolosa cura quotidiana delle cose e dell’altro (degli altri), e le parole, appena uscite dall’inverno, ancora, non hanno voce e rimangono afone:


Articolo parole che rimangono afone

il vento porta le nuvole


Per il sereno c’è tempo

ancora non raffiguro giardini

(p. 54, vv. 8-11)


Tra tutte le parole del libro, parole che continuano ad essere afone fino a che l’occhio di chi legge non le pronuncia nel suo foro interiore, una parola si staglia, urla e lascia intravedere i segreti del marmo, la scultura che nasconde. [Si veda p. 51, vv. 4-6]

Questa parola è “dolore”.

La parola che percorre tutto il libro e che lo chiude:


Gli amici portano affetto

ma non si accorgono che quella

è la tua poltrona

e si siedono


(Provo dolore) (p. 60)


Le ultime parole di un libro di poesia sono da prendere sul serio, sono una confessione poetica. Non è l’incipit (come accadrebbe nella narrativa) a dirci di che cosa stiamo parlando, è l’explicit.

Il dolore, allora, è la seconda, ma forse la più importante, chiave di lettura della via dolorosa che Carla ha tracciato nelle sue poesie.

Il dolore.

La morte.

La distanza incolmabile.

L’assenza che è (ancora e sempre) presenza.

Gli oggetti, le parole, i ricordi.

I “perché?”.

Il camminare insieme.

I tempi suoi e i tuoi.

Il perdersi.

La tempesta.

La quiete che non giunge.

Il vuoto.

Il nulla.

Il tutto.

Il particolare.

L’universale.


Sì, il particolare, perché chi scrive poesia non può sfuggire a se stesso e il peso di ciò che è e di ciò che è stato grava sul cuore, sui pensieri e sulla mano che dispone sul foglio le parole.

Ecco un passo di particolare forza evocativa:


Un banchetto colorato per te

fra le stelle

per un saluto alla vita


Ti accolga un amore più grande


Le parole fluttuano senza ordine

nel mare amato insieme a remare i giorni

a volte facili

spesso difficili

con voce alt qualche lacrima qualche sorriso

alla vita

ora stringo aria

non riesco a trovarti

mi sfuggi

devi diventare senza dolore

un ricordo

un pensiero profondo

che s’annida come un richiamo a voce piena


piango (p. 42)


È il tempo del pianto.

Quel verso finale chiuso in una sola parola, “piango”, resta sospeso tra l’impossibilità di stringere chi non c’è più e la ricomposizione del dolore dell’assenza.

Quel “piango” ha un tratto particolare: è l’unico verso isolato ad essere scritto con la prima lettera in minuscolo e non in maiuscolo. Un particolare che ci insegna che ciò che di profondo siamo è, sempre e solo, nei particolari.

E chi può dar voce ai particolari se non la poesia?

Sì, l’universale, perché, quando chi scrive poesia dice “io”, forse parla di sé ma e, mentre parla di sé, scava nel profondo dell’animo e delle vicende umane e trova, non la via della consolazione (perché, si voglia o no, la poesia non consola), ma la sympathéia, il senso del comune soffrire, dell’affondare senza annegare, del non avere le risposte ai “perché” che forse, qui ed ora, non hanno o non possono avere risposta, e, se l’hanno, non risponde perché dolore genera dolore e domanda genera domanda.

Solo un esempio.


Ci sarà il tempo della quiete


L’orizzonte è lontano


Ci sarà (p. 40)


È propria la capacità di attingere l’universale che fa dei versi di Carla poesia che ci prende per mano e ci accompagna, come farebbe un amico che ci conosce, nel viaggio della vita troppo spesso senza meta (o verso una meta che non conosciamo). Ed è per questo, come afferma Stefano Martello, che “leggere le sue poesie ci rende migliori” (p. 63).

Camminiamo, allora, sulle orme dei suoi versi e proviamo ad essere migliori.


Prima orma.


(So di dovere scegliere ad una condizione

non devo danneggiare alcuno) (p. 47)

È la sapienza antica.

È la sapienza popolare.

È la “regola d’oro” che ci insegna qual è la strada da seguire senza incorrere nel tragico errore (o nell’illusione) di volere fare il bene altrui ad ogni costo.


Seconda orma.


Ogni cosa che cade ha il suo rumore

vorrei sentire scorrere ogni senso e riconoscere

la spinta del tempo passato

le mani unite in uno scambio di gesti di pace

insieme


Perché da soli non è facile

nemmeno riconoscersi (p. 19)


Il senso dell’esser-ci è nell’insieme perché nessun uomo è un’isola. Siamo arcipelaghi di isole unite da strade sotto il pelo dell’acqua, unite e comunicanti come le radici degli alberi in un bosco. 

È solo insieme che possiamo riconoscerci e unire le mani in uno scambio vicendevole di gesti di pace.

Oltre il silenzio,

Oltre l’indifferenza.

Senza retorica.

Con gli occhi, con il cuore, con le mani pronte a seminare pace.

Nell’attesa attiva intrecciando i fili della speranza:


Ci sarà dato il tempo

di sbagliare e correggere

di seminare e di raccogliere (p. 18, vv. 12-14)


Terza orma.


Bambini cercano cibo tra le case e le macerie

il dolore entra ed esce

non può essere trattenuto

da nessuna finestra


Qui carrelli pieni corrono

nessun semaforo li ferma o ne rallenta la corsa


Nella grotta c’è un pianto

he seppur lieve inonda il mondo (Natale, p. 31, vv. 13-20) [Natale è una delle sole tre poesie che hanno il titolo. Le altre due sono: Estate (p. 55); L’origine delle cose (p. 59). Lo stesso tema ritorna anche nella poesia di p. 22: Appena fuori la grotta / lampi di pianti e case distrutte // Tu continui ad addobbare l’albero e a fare il presepe (vv. 19-21).


Qui.

Là.

Se il Natale è un tempo e un luogo, in ogni Natale non si può non avere a che fare con il luogo e, quando in quel luogo i bambini soffrono, non c’è più in quella grotta il sorriso di gioia che dà speranza al mondo ma un pianto lieve che trasborda e inonda il mondo.

Ma noi, presi dalla vuota retorica e dal mercato del Natale, quel pianto non lo sentiamo e non l’ascoltiamo.

Il dolore resta dolore e la fame fame.


Eppure, se lo vogliamo, possiamo costruire un mondo nuovo ed essere noi i protagonisti del presepe, pronti ad andare per il mondo a riparare (ognuno come sa e come può) il mondo:


Quest’anno una sorta di malinconia mi prende

nello spogliare l’albero di Natale

nell’incartare i protagonisti del presepe

allora metto tutto in una scatola trasparente

la lascio aperta così

quando vogliono possono

andare per il mondo

il boscaiolo a proteggere gli alberi

il suonatore di flquto a incantare i bambini

a fare crescere la frutta

a far sgorgare il latte che sfama

a inchiodare la guerra e cantar di pace

la portatrice di acqua nel deserto a dissetare


Se vogliono il prossimo anno

possono tornare (p. 32)


C’è, dunque, il tempo della festa e il tempo di “andare per il mondo” a fare ciò che ognuno, nessuno escluso, sa e può fare per rendere migliore il mondo.

È che, purtroppo, non lo sappiamo di essere quei personaggi del presepe e ce ne stiamo chiusi nella scatola che ci contiene e ci consola e, nello stesso tempo, ci spegne e ci vuole lì nell’inutile attesa di un altro tempo per essere la maschera di noi stessi.

Usciamo, allora, e andiamo incontro al mondo.

Tu cosa vuoi, cosa sai fare?

Io provo a inchiodare la guerra e cantar di pace.


Può darsi, forse, che basti prendersi cura del proprio giardino.


10 agosto ’25

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