È rara una silloge
poetica a quattro mani. Tale è quella di Luca Ariano e Carmine De Falco: I
naufraganti, edita da Industria & Letteratura nel 2025. Forse perché il
poeta deve affermare solipsisticamente la propria originalità, l'unicità della
propria esperienza e della propria voce, quasi come se le nostre parole non
fossero già inevitabilmente altre. Le parole sono come gli asciugamani
dei molti coscritti, in camerata, o, per essere meno prosaici dell'esempio di
Gadda, parole, immagini, mondi, non nascono dal nulla, ma sembra quasi di
rinunciare a un qualche vanto o merito trascurando questa ovvietà. Eppure il
risultato poetico può essere potenziato dalla collaborazione, e il valore della
poesia è quello che conta, non l'affermazione dell'individualità. Quante opere
del passato sono rimaste anonime, anche perché originariamente collettive, come
le grandi cattedrali medievali. Anche nei brani per pianoforte a quattro mani
tendenzialmente il solista deve scomparire. Anche lo scrivente ha partecipato a
opere artistico-letterarie collettive, ma in un prodotto, diciamo, di coppia,
c'è qualcosa di meno e al contempo qualcosa di più che in altre opere
collettive, proprio perché tertium non datur. Inoltre, distinguere qui
le voci dei due autori non è semplice per il lettore comune, né viene
esplicitata la distinzione dei ruoli. In qualche modo, già questa è una
dichiarazione di intenti. Forse
l'individualismo è un'altra malattia dei nostri tempi.
Con
la prima poesia si impone il contrasto fra la storia personale, privata, e il
mondo nuovo, che irrompe con l'impersonalità dell'algoritmo, delle voci
registrate, quelle con cui spesso dobbiamo confliggere quando tentiamo di
accedere a un servizio, o quando viceversa ignoti cercano di propinarcene uno
telefonicamente.
A tal
proposito, da poco mi è giunta notizia della nuova frontiera della cibernetica:
il doppiaggio automatico di serie su internet (“telefilm” avrei detto una
volta) nella sua versione più evoluta, tramite intelligenza artificiale, che
promette novelli Cigoli e Amendola.
Così, parlando di voci, a qualcuno sarà capitato di trovare una qualche
incongruità nella voce di un poeta che legge le proprie poesie; o avrà forse
rilevato che l'autore non fosse il miglior lettore della propria opera. E così,
tanti divi del cinema estero (americano in special modo) sono per noi
indissolubilmente legati alla loro voce italiana, e, sentiti in originale, la
loro interpretazione non ci fa lo stesso effetto, ci sembrano anonimi.
D'altronde si diceva che la fama di Rodolfo Valentino risultasse offuscata
dall'avvento del sonoro perché la sua voce non era all'altezza del suo aspetto.
(per qualche curioso, ho scoperto da poco l'esistenza di un rullo Edison con la
voce di Ciaikovski). Altre volte ci siamo trovati a immaginare l'aspetto fisico
– per così dire – di una voce solo sentita. E ciò valga come ulteriore
indizio che tra autore/i e opera non vi sia un legame univoco, come non vi è
tra voce e corpo.
Tornando
alla nostra Opera, ho pensato che avrebbe giovato una separazione più netta tra
i vari componimenti, ma anche questa è probabilmente una scelta
poetico/editoriale. Ad ogni modo, la prima poesia inizia “C'è sempre una prima
volta”, e introduce, dicevo, la memoria personale: momenti e luoghi passati, le
“morte stagioni”, il fantasma di una 'lei'; nella seconda, che inizia “E'
l'ultima volta”, si affastellano i 'fenomeni' della contemporaneità, a
cominciare dagli eventi bellici, in rotta, o in interscambio, con i ricordi. Si
tratta di guerre del presente, del vicino e del lontano passato, a tutte le
latitudini. L'espediente retorico utilizzato è appunto l'enumerazione, che sollecita il senso di un'ulteriore
invasione subita dal singolo, ovvero quella delle notizie e delle immagini, e
al contempo esplicita (implicitamente) l'impossibilità di convertirle in una
sintassi, in un discorso.
Altre
forme, geografiche, della lontananza, per esempio nelle Ande, sugli altipiani
persino pittoreschi della Bolivia, inducono a chiedersi: dove si è spostato il
lontano? Quali sono le nuove frontiere? Il multiculturalismo, la pervietà del
limen, l'inclusività progressista e via dicendo, appaiono tanto lontani da quel
motto lapidario: “Sempre la confusion de le persone
/ principio fu del mal de la cittade”, con “la gente nova e i subiti guadagni”
rovina di una comunità, e sarebbero poi i villani del contado fuori Firenze,
mica gli extracomunitari. A parte che l'autore dei versi citati sapeva essere
molto aperto in tema di influenze culturali, in realtà nulla è cambiato,
l'uomo ha sbirciato in tanta parte del mondo, ha compiuto il “folle volo”, per
usare un'altra metafora dantesca, ma è ancora quello “della pietra e della
fionda”: “non ci siamo poi mossi di tanto / dalla rivoluzione industriale … la
cultura / non serve che a renderci lieve il dolore / L'ultima neve, qui sulle
Alpi e non c'era / nessuno a guardarla cadere”. In altri termini, in un mondo
globalizzato siamo forse ancora più isolati.
D'altronde
il titolo della raccolta è esemplare: da quelle celebri ungarettiane 'Allegrie
di naufragi' tutto sommato personali, pur nel cuore della grande guerra, ad
altri naufragi meno metaforici e più storici, in un'ottica in qualche modo
militante, nel senso che “l'indifferenza è il peso morto della storia”, come il
Gramsci qui in esergo. Vi è, dicevamo, un contrasto tra l'io e la storia, che
assume forma poetica come nel soprassalto che coglie chi ha imparato a non
confondere il suono dei vicini che battono il tappeto con quello sordo,
ovattato, ingannevole delle bombe che cadono il lontananza; ma vi è anche un
cozzare tra aulico (nello spirito più che nella forma) e prosaico, con una
netta prevalenza di quest'ultimo, a livello linguistico, nel costante irrompere
del lessico della contemporaneità, e anche a livello tematico, con talune rade
reminiscenza nobili sottotraccia, come nello 'switch' tra Paolo e Francesca e
Olindo e Rosa.
Se la
violenza ha un che di pittoresco
cattura
lo sguardo e lo arresta,
resteremo
qui ad ammirare le gesta
d’un
pasciuto godimento estetico
prima
di altri armageddon che solo
frammenti
destrutturati
ci
rendono digesti nel macabro
deserto
dell’immagine
che
basta a se stessa.
E'
chiaro che Ariano / De Falco scelgono di competere con le stesse armi dell'invadente
e chiassosa contemporaneità mediatica, dell'ingombrante e pervasivo nemico che
però sa condurci subdolamente a braccetto verso la rovina. Il diavolo,
probabilmente. Anche se poi, all'improvviso, sparuta compare una rima, che
certo può avere molti intenti, ma che vogliamo vedere come un piccolo puntello
a sostegno della poesia.
“Odore
di diossina... d'asfalto e polveri sottili”, questo ci resta di un “odore di
temporale”, così come “vittime teenager sugli scogli... si mischiano ai
naufragi”. Emerge nel lettore, forse più ancora che negli autori, un senso di
oppressione, confusione, angoscia, come per le notizie allarmistiche dei media
che sono, anche queste, bombardamenti, sia pur metaforici.
Ricorrono
pure i nomi di mesi e stagioni, a scandire il rapporto con il tempo e con la
memoria, tema quanto mai complesso: “ritrovi tuo padre / in quella foto Anni
Ottanta ..., da salvare / nei traslochi rimarranno / ritagli in carpette: / non
lo rivedrai nel digitale”, perché, qualora mai qualcuno lo credesse, su
internet non si trova tutto, perciò l'autentico spirito archeologico e
antropologico è quanto mai importante, anche nei confronti delle culture e dei
“popoli scomparsi”. E in questo groviglio di frammenti, di immagini, di schegge
dal lontano e dal passato, sorge inevitabile la domanda: “Ma davvero siete gli
ultimi / ad aver visto quelle stagioni?” Questo ce lo chiediamo un po' tutti, a
un certo punto (“où sont les neiges
d'antan?”), ma così viene proprio il sospetto d'esser vecchi. E' una consapevolezza
che si estende a questa nostra civiltà, che promana dal nostro, come si dice,
background, ma non estendiamola a tutte le civiltà, al mondo intero, se pure la
scienza stimi che oltre il 99,9% delle specie apparse sulla Terra si sia
estinta. E' la normalità. E se la nostra civiltà è veramente moribonda, forse
lo è proprio nel suo rapporto malato con la morte, ora sovraesposta ora
rimossa, e con il sapere, ove si sconta il peccato di superbia, cioè la pretesa
di cibarsi all'albero della conoscenza, anche qui tra scientismo e nuovo
oscurantismo.
Nella
versione da Ana Seferovic ritorna la flagranza della contemporaneità, della
guerra, e in aggiunta la condizione femminile, più il “dente nero”, una specie
di antiperturbante, l'oggetto, l'aggancio al concreto, e non, per esempio, il
dente di cera di Landolfi, che invece trasportava nella dimensione dell'incubo,
come anche i denti della Berenice di Poe. E però il presente si interseca con
altre schegge storiche, la storia come l'oggi, con nomi, reminiscenze,
fantasmi, di Barbarossa, o di Tito Tazio, e chi era costui? Ricordo un
frammento di Ennio, poeta latino arcaico, che riguarda proprio la vicenda qui
evocata: “O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti”.
Il Sonetto
contagiato, con la sua stessa forma un po' sghemba, proclama: “E' quando ci
scordiamo della storia / che siamo condannati ad ogni aggravio”. S'intende di
tutta la storia, quella forse “di civiltà contadine solo sfiorate”, il “mondo
dei vinti” se vogliamo: ormai “non sarà tua nonna a scongelare una gallina /
per il brodo”, altra immagine icastica. Questo contagio mi ricorda, per il
sorriso un po' acre e sardonico, Botulinus di Zeichen. Sonetto seguito
fra l'altro, quasi a disseminazione, da filastrocca, ove si ritrovano
amplificati procedimenti e meccanismi di accumulazione e allitterazione.
Gli
ultimi componimenti inclinano ancora tra guerre del presente e giovinezza anni
'80, con “acqua e menta”, “partite a briscola” del nonno, “calcio balilla”,
“primi amori”, ma si insinua un sentore di sconfitta, quantomeno di assenza di
risposte: “Rimarrà il mistero di quella
parola”; “Forse più facile dimenticare / da dove venisti”; tanto che, proprio
alla fine, a sollievo di quel coacervo che, direi riassuntivamente, viene
definito “assedio”, compare persino la parola 'grazia', “che non giungerà”,
certo, ma mi è sembrata significativa.
Flavio Vacchetta

Nessun commento:
Posta un commento