sabato 26 luglio 2025

Recensione di Flavio Vacchetta a "I naufraganti" (Industria&Letteraratura) di Luca Ariano e Carmine De Falco

 


È rara una silloge poetica a quattro mani. Tale è quella di Luca Ariano e Carmine De Falco: I naufraganti, edita da Industria & Letteratura nel 2025. Forse perché il poeta deve affermare solipsisticamente la propria originalità, l'unicità della propria esperienza e della propria voce, quasi come se le nostre parole non fossero già inevitabilmente altre. Le parole sono come gli asciugamani dei molti coscritti, in camerata, o, per essere meno prosaici dell'esempio di Gadda, parole, immagini, mondi, non nascono dal nulla, ma sembra quasi di rinunciare a un qualche vanto o merito trascurando questa ovvietà. Eppure il risultato poetico può essere potenziato dalla collaborazione, e il valore della poesia è quello che conta, non l'affermazione dell'individualità. Quante opere del passato sono rimaste anonime, anche perché originariamente collettive, come le grandi cattedrali medievali. Anche nei brani per pianoforte a quattro mani tendenzialmente il solista deve scomparire. Anche lo scrivente ha partecipato a opere artistico-letterarie collettive, ma in un prodotto, diciamo, di coppia, c'è qualcosa di meno e al contempo qualcosa di più che in altre opere collettive, proprio perché tertium non datur. Inoltre, distinguere qui le voci dei due autori non è semplice per il lettore comune, né viene esplicitata la distinzione dei ruoli. In qualche modo, già questa è una dichiarazione di intenti.  Forse l'individualismo è un'altra malattia dei nostri tempi.

 

Con la prima poesia si impone il contrasto fra la storia personale, privata, e il mondo nuovo, che irrompe con l'impersonalità dell'algoritmo, delle voci registrate, quelle con cui spesso dobbiamo confliggere quando tentiamo di accedere a un servizio, o quando viceversa ignoti cercano di propinarcene uno telefonicamente.

A tal proposito, da poco mi è giunta notizia della nuova frontiera della cibernetica: il doppiaggio automatico di serie su internet (“telefilm” avrei detto una volta) nella sua versione più evoluta, tramite intelligenza artificiale, che promette novelli Cigoli e Amendola.  Così, parlando di voci, a qualcuno sarà capitato di trovare una qualche incongruità nella voce di un poeta che legge le proprie poesie; o avrà forse rilevato che l'autore non fosse il miglior lettore della propria opera. E così, tanti divi del cinema estero (americano in special modo) sono per noi indissolubilmente legati alla loro voce italiana, e, sentiti in originale, la loro interpretazione non ci fa lo stesso effetto, ci sembrano anonimi. D'altronde si diceva che la fama di Rodolfo Valentino risultasse offuscata dall'avvento del sonoro perché la sua voce non era all'altezza del suo aspetto. (per qualche curioso, ho scoperto da poco l'esistenza di un rullo Edison con la voce di Ciaikovski). Altre volte ci siamo trovati a immaginare l'aspetto fisico – per così dire – di una voce solo sentita. E ciò valga come ulteriore indizio che tra autore/i e opera non vi sia un legame univoco, come non vi è tra voce e corpo.

 

Tornando alla nostra Opera, ho pensato che avrebbe giovato una separazione più netta tra i vari componimenti, ma anche questa è probabilmente una scelta poetico/editoriale. Ad ogni modo, la prima poesia inizia “C'è sempre una prima volta”, e introduce, dicevo, la memoria personale: momenti e luoghi passati, le “morte stagioni”, il fantasma di una 'lei'; nella seconda, che inizia “E' l'ultima volta”, si affastellano i 'fenomeni' della contemporaneità, a cominciare dagli eventi bellici, in rotta, o in interscambio, con i ricordi. Si tratta di guerre del presente, del vicino e del lontano passato, a tutte le latitudini. L'espediente retorico utilizzato è appunto l'enumerazione,  che sollecita il senso di un'ulteriore invasione subita dal singolo, ovvero quella delle notizie e delle immagini, e al contempo esplicita (implicitamente) l'impossibilità di convertirle in una sintassi, in un discorso.

 

Altre forme, geografiche, della lontananza, per esempio nelle Ande, sugli altipiani persino pittoreschi della Bolivia, inducono a chiedersi: dove si è spostato il lontano? Quali sono le nuove frontiere? Il multiculturalismo, la pervietà del limen, l'inclusività progressista e via dicendo, appaiono tanto lontani da quel motto lapidario: “Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade”, con “la gente nova e i subiti guadagni” rovina di una comunità, e sarebbero poi i villani del contado fuori Firenze, mica gli extracomunitari. A parte che l'autore dei versi citati sapeva essere molto aperto in tema di influenze culturali, in realtà nulla è cambiato, l'uomo ha sbirciato in tanta parte del mondo, ha compiuto il “folle volo”, per usare un'altra metafora dantesca, ma è ancora quello “della pietra e della fionda”: “non ci siamo poi mossi di tanto / dalla rivoluzione industriale … la cultura / non serve che a renderci lieve il dolore / L'ultima neve, qui sulle Alpi e non c'era / nessuno a guardarla cadere”. In altri termini, in un mondo globalizzato siamo forse ancora più isolati.

 

D'altronde il titolo della raccolta è esemplare: da quelle celebri ungarettiane 'Allegrie di naufragi' tutto sommato personali, pur nel cuore della grande guerra, ad altri naufragi meno metaforici e più storici, in un'ottica in qualche modo militante, nel senso che “l'indifferenza è il peso morto della storia”, come il Gramsci qui in esergo. Vi è, dicevamo, un contrasto tra l'io e la storia, che assume forma poetica come nel soprassalto che coglie chi ha imparato a non confondere il suono dei vicini che battono il tappeto con quello sordo, ovattato, ingannevole delle bombe che cadono il lontananza; ma vi è anche un cozzare tra aulico (nello spirito più che nella forma) e prosaico, con una netta prevalenza di quest'ultimo, a livello linguistico, nel costante irrompere del lessico della contemporaneità, e anche a livello tematico, con talune rade reminiscenza nobili sottotraccia, come nello 'switch' tra Paolo e Francesca e Olindo e Rosa.

 

Se la violenza ha un che di pittoresco

cattura lo sguardo e lo arresta,

resteremo qui ad ammirare le gesta

d’un pasciuto godimento estetico

prima di altri armageddon che solo

frammenti destrutturati

ci rendono digesti nel macabro

deserto dell’immagine

che basta a se stessa.

 

E' chiaro che Ariano / De Falco scelgono di competere con le stesse armi dell'invadente e chiassosa contemporaneità mediatica, dell'ingombrante e pervasivo nemico che però sa condurci subdolamente a braccetto verso la rovina. Il diavolo, probabilmente. Anche se poi, all'improvviso, sparuta compare una rima, che certo può avere molti intenti, ma che vogliamo vedere come un piccolo puntello a sostegno della poesia.

“Odore di diossina... d'asfalto e polveri sottili”, questo ci resta di un “odore di temporale”, così come “vittime teenager sugli scogli... si mischiano ai naufragi”. Emerge nel lettore, forse più ancora che negli autori, un senso di oppressione, confusione, angoscia, come per le notizie allarmistiche dei media che sono, anche queste, bombardamenti, sia pur metaforici.

Ricorrono pure i nomi di mesi e stagioni, a scandire il rapporto con il tempo e con la memoria, tema quanto mai complesso: “ritrovi tuo padre / in quella foto Anni Ottanta ..., da salvare / nei traslochi rimarranno / ritagli in carpette: / non lo rivedrai nel digitale”, perché, qualora mai qualcuno lo credesse, su internet non si trova tutto, perciò l'autentico spirito archeologico e antropologico è quanto mai importante, anche nei confronti delle culture e dei “popoli scomparsi”. E in questo groviglio di frammenti, di immagini, di schegge dal lontano e dal passato, sorge inevitabile la domanda: “Ma davvero siete gli ultimi / ad aver visto quelle stagioni?” Questo ce lo chiediamo un po' tutti, a un certo punto  (“où sont les neiges d'antan?”), ma così viene proprio il sospetto d'esser vecchi. E' una consapevolezza che si estende a questa nostra civiltà, che promana dal nostro, come si dice, background, ma non estendiamola a tutte le civiltà, al mondo intero, se pure la scienza stimi che oltre il 99,9% delle specie apparse sulla Terra si sia estinta. E' la normalità. E se la nostra civiltà è veramente moribonda, forse lo è proprio nel suo rapporto malato con la morte, ora sovraesposta ora rimossa, e con il sapere, ove si sconta il peccato di superbia, cioè la pretesa di cibarsi all'albero della conoscenza, anche qui tra scientismo e nuovo oscurantismo.

 

Nella versione da Ana Seferovic ritorna la flagranza della contemporaneità, della guerra, e in aggiunta la condizione femminile, più il “dente nero”, una specie di antiperturbante, l'oggetto, l'aggancio al concreto, e non, per esempio, il dente di cera di Landolfi, che invece trasportava nella dimensione dell'incubo, come anche i denti della Berenice di Poe. E però il presente si interseca con altre schegge storiche, la storia come l'oggi, con nomi, reminiscenze, fantasmi, di Barbarossa, o di Tito Tazio, e chi era costui? Ricordo un frammento di Ennio, poeta latino arcaico, che riguarda proprio la vicenda qui evocata: “O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti”.

 

Il Sonetto contagiato, con la sua stessa forma un po' sghemba, proclama: “E' quando ci scordiamo della storia / che siamo condannati ad ogni aggravio”. S'intende di tutta la storia, quella forse “di civiltà contadine solo sfiorate”, il “mondo dei vinti” se vogliamo: ormai “non sarà tua nonna a scongelare una gallina / per il brodo”, altra immagine icastica. Questo contagio mi ricorda, per il sorriso un po' acre e sardonico, Botulinus di Zeichen. Sonetto seguito fra l'altro, quasi a disseminazione, da filastrocca, ove si ritrovano amplificati procedimenti e meccanismi di accumulazione e allitterazione.

 

Gli ultimi componimenti inclinano ancora tra guerre del presente e giovinezza anni '80, con “acqua e menta”, “partite a briscola” del nonno, “calcio balilla”, “primi amori”, ma si insinua un sentore di sconfitta, quantomeno di assenza di risposte:  “Rimarrà il mistero di quella parola”; “Forse più facile dimenticare / da dove venisti”; tanto che, proprio alla fine, a sollievo di quel coacervo che, direi riassuntivamente, viene definito “assedio”, compare persino la parola 'grazia', “che non giungerà”, certo, ma mi è sembrata significativa.

 

Flavio Vacchetta

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