Flavio Vacchetta, Katagrafé, Prefazione di Renato Scavino, Nota di Cristina Raddavero, puntoacapo 2016
recensione di AR
Nella dedica autografa del libro di cui mi accingo a parlare, Flavio scrive “vorrei arruolarmi / di silenzio / in silenzio” e in effetti i poeti sono ricamatori di un ascolto che si esprime in una katagrafé, ovvero incidono su questa nostra terra i sensi di una ispirazione generatrice e sostanzialmente ineffabile che – ci ricorda Scavino a p. 7 – “viene solo dall’alto”. Nell’Introduzione (p. 10), Raddavero afferma: “L’atto poetico di Flavio sancisce la grandezza dell’uomo nella sua debolezza, nel suo essere ontologicamente finito. Eppure il nocciolo abita lì, nell’immagine sublime dei piedi nel cielo. Torna, ripetuto, questo katà, questo essere ‘sotto’ per essere ‘sopra’…”
Cielo, mare, natura, affetti, fatiche, dolori, desideri, aspirazioni… pervadono la raccolta in un dialogo incessante con un Tu trascendente che si sente vicino eppure misterioso e spesso incomprensibile. L’uomo vorrebbe infatti de-finirlo, incapsularlo nel suo proprio vissuto, ma non può che constatare come la sua finitudine creaturale non possa produrre che idoli depistanti, coacervo di desideri fasulli. Il linguaggio è intenso, scabro, ricco di accostamenti insoliti e immagini spiazzanti e suggestive che aprono a infinite domande e lasciano al lettore il compito di trovare in sé risposte, comunque mai de-finitive dato che l’uomo è sempre un essere in cerca, in divenire e pieno di sfaccettature, e solo gli altri (e in primis l’Altro) possono aiutarlo a scoprirle, a riconoscerle.
Consideriamo alcuni lacerti: “la scoperta / incomincia / dal silenzio? / (…) / se cedi l’impronta / tutto è sabbia / già…” (Anima mea, p. 18); “noto un ragazzo / (…) / parla al telefono con molta rabbia / (…) / se solo sapesse / che un sorrisetto gli / cambierebbe la vita / se non il mondo… / (…) / spesso, alto / è il precipizio / per scansarlo / senza andare / nel burrone / si va nel buio / col rischio della paura” (Ecco, pp. 20-21); “la frutta la deponi / sulle ginocchia / graffiate dalla radio” (A memoria di Filomena, p. 31); “allora escogito / per te parola estrema / ed elaboro ecografia / del tuo estremo sapere / coniugo i tuoi occhi / sui miei pianeti” (Galileo Galilei, p, 34); “incontro donne scure / li esamino in faccia / i loro capelli lunghi / sembrano binari diversi / disegnano chiare terrazze / e case senza tetti / sepolte da delusioni” (Bosco di case, p. 37); “portami lo sguardo in alto / contami senza dimenticarmi / Signore / come faresti colle tue pecorelle” (La casa, p. 43); “possediamo / tutti / un ricordo / che ha sede / nel dolore” (Come stanno le cose, p. 48); “come vorrei il cielo / arrivasse a terra / (…) / la morte sarebbe una passeggiata” (Mi fischiano, pp. 54-55); “Maria mamma mia / dolce sussurro senza macchia / respira con me sempre / l’aria del mattino / fruga nel mio cervello / alla presenza del Rabbi / se hai freddo ti copro / col mio mantello di lana merinos” (Pure sentendo, pp. 58-59).
Vediamo come un tragico, icastico umorismo caratterizzi lo stile di Vacchetta e lo spinga a uscire da sé con una empatia capace di fomentare in lui e in noi un filo di speranza indefettibile.
Mi piace concludere questa lettura di Katagrafé riportando integralmente la poesia Getti nel fuoco (p. 36) una sorta di preghiera a sé stesso e al contempo un salmo a un tu/Tu infinitamente prossimo (anche a noi, a me e a te, che l’ascoltiamo magari pronunciandola a viva voce):
Getti nel sonno
gli avanzi del giorno
a caccia d’affanni
che passano
e sfasciano
sono contento
se mi porti
nubi aperte
se al suo interno
le stanze polverose
tu non vedi

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