venerdì 12 luglio 2024

"I segni della lotta". Di Andrea Corsi



La mia storia è piuttosto semplice: sono nato qui, ho vissuto là. Abbraccia lo zaino, anche se è sporco e vecchio. Parti. Secondo me, le strade sono un faro che illuminano gli occhi. Mancanza di spazio per il respiro. Mai interamente figlio di qualcuno. La verità, è che sono un povero disperato. Le idee che bruciano il cuore. Sono capace di prendere e andarmene – non lo farò.

 

Hai mai pensato alle radici? I fiori sono belli, ora nell’aria calda di giugno. L’amicizia è un cuore che era di pietra. Non riesco a dormire, ma mi sono mai svegliato oggi? Tutto si muove come sotto la luce di un faro. Il segno, il simbolo, il fiore, l’arrivo. La bicicletta del mondo.

 

Mani cieche e mani ponte. Sorrisi insanguinati. Il bambino scalcia ma l’amore è un viaggio, una strada lunga. Puoi vivere se sai morire. Le frasi sono una strada di parole. Il dimenticatoio dei padri è una frase di oceani. La poesia una questione di magrezza e di vanagloria.

 

Il cuore è una porta, il mondo una stanza, la parola un faro, una torcia. La mia vita assomiglia a un libro che mi capita sotto gli occhi, intitolato About Philosophy. Sempre e soltanto about, mai la cosa stessa. Tutto ciò mi ricorda quel francescano di origini indiano che incontrai alla Minoritenkirchen a Vienna, magro e consumato, sempre innaturalmente sorridente, dagli occhi profondi e penetranti. Era estate.

 

Carta canta, disse, il paradiso è in mostra. La terra odora sempre di terra, anche in città. Qual è il volto dell’amore? Quale volto assume, di volta in volta? “L’odio sale sopra il fiore a maggio / dentro uno spiraglio primaverile.” Così il tempo continua a consumare le nostre ferite. La ferita è un corpo nel mare. Ogni giorno è un esame importante.

 

C’è un principio che mi sembra di aver individuato fra le mille prove, a cui torno con la mente. È quello del “va’ e fallo”. È molto semplice, in effetti, quasi banale — quel che si può dire in una conversazione tra amici, metà seri. Ma credo che abbia un significato più profondo – quando ci si smarrisce, non credo ci siano molti altri modi per ritrovare il filo del cammino. Del resto, lo sentii dire anche una volta da una psichiatra di grande esperienza. Andando e facendo, quella qualsiasi cosa che abbiamo nel cuore, probabilmente si capirà nel processo che era tutt’altro quel che a dire il vero stavamo cercando. E anche, allora, vale lo stesso principio.

 

Chi è il tempo? Vorrei conoscerlo, andare a stringergli la mano. Ormai scrivo solo perche non ho piu parole.

 

“Secondo lei, qual è l’origine dell’universo?” Ricordo quel professore — secco, alto, capelli corti e brizzolati, sempre elegante ma i vestiti di una taglia più larga, la mandibola sporgente e il volto squadrato — entrava spegnendo la luce e aprendo le finestre, qualunque fosse l’ora e il mese. Ci chiamava per cognome, dandoci appunto del lei. Cominciava a spiegare i filosofi a partire dai particolari più insignificanti: una zia di Schopenhauer, o cose simili. Una volta, durante l’intervallo, andai a fargli vedere un video di Carmelo Bene in cui spiegava, nel suo stile ispirato, la differenza tra la concezione del tempo come kronos kairos. “Lasci perdere…” si limitò a commentare. 

       L’ho rivisto qualche mese fa, dopo un decennio dall’ultima volta, in una delle biblioteche della città. “Signor…”, mi fa, “ma non è cambiato per niente, anzi è diventato più bello!” I soliti convenevoli. È andato in pensione, ora passa metà dell’anno in una certa località balneare francese — dove la vita costa meno, a quanto dice, che in Italia. L’ho accompagnato alla macchina, dove l’aspettava la moglie. Si dice che abbia attraversato più di una tragedia nella sua vita personale. 

 

Se non vedi, spostati. Credo che certe esperienze non si possano capire, ma soltanto condividere. Sono le esperienze che chiamiamo “vita”, questo faticoso cammino; se abbiamo delle gambe, del resto, è perché dobbiamo camminare; perfetto è soltanto chi si perde, dunque, chi è perso. 

 

Penso a te che preghi, e non sai di essere la preghiera di un altro. Il poeta, quando riesce, fa del suo corpo un’ostia. La vita, questo continuo compromettersi con la morte. Bisognerebbe dire ad ogni padre, e quindi a tutti quelli che si fanno chiamare in questo modo, che sì, hanno ragione quegli altri, e forse anche loro stessi quando lo ribadiscono – la vita in fondo non è altro che un gioco, e non dobbiamo prenderci troppo sul serio. Però, il gioco è vero soltanto se lo giochiamo con la nostra, di vita, e non con quella di qualcun altro. Il cuore come mina di una matita. 

 

La nostra vita non è che un continuo esperimento, una prova. Tutto quel che possiamo fare è puntare i nostri sforzi su qualche cosa, potare qui invece che là. “Fidati, Dio gioca le sue carte.” Cosa speri, su cosa poggia la tua testa, di sera, quando ci si può riposare? “Ad ogni giorno la sua pena"…

 

La chiave è il rispetto, delle scelte di ciascuno — un lavoro quotidiano. L’ascolto è la chiave. 

 

Guarda la pagina bianca, dentro il caos. Pensiamo di essere fermi, di stare su delle rotaie — non possiamo farne a meno di questa sensazione. Dove siamo diretti? Ogni giorno bisogna dare una risposta a questa domanda, altrimenti ci sentiamo in balia di forze di cui non sappiamo praticamente nulla. Come è in effetti. Un giorno una religiosa mi ha detto: “Noi siamo come delle pecore, lo sai? Le pecore sono gli animali con meno senso dell’orientamento che esistano.” Ogni passo può essere motivo di smarrimento, insomma, questo mi voleva dire. Ma può anche essere l’inizio della vita vera. 

 

“Lì dove un innocente ha subito una morte ingiusta, adesso hanno eretto una chiesa, e tutto vi ha incredibilmente l'aria di una festa.” Per alcuni gli anni e i mesi passano come dei sorsi. Altri vorrebbero che la sera non giungesse mai.  

 

"L'impresa maggiore di Perseo forse non fu quella di decapitare Medusa, ma quella di vincere la paura e di guardare il suo riflesso nello scudo.” (Carlo Revelli, I demoni del potere)

 

Vatti a scrivere sui muri le perle dei sentieri. La democrazi è un faro di nevi. Io sono arrivato al limite del corpo e ho visto le mani dei miei programmi, ho incrociato gli occhi dei miei rami. Mi è rimasta la strada, le migliaia di padri anonimi, vicini. All’uomo che gioca a scacchi e guarda il cielo, non interessa dormire.

 

Sono le 7, il cielo e letteralmente blu. Diventare se stessi: cioè quello che tutti, fossero me, vorrebbero diventare.

 

In un documentario sul poeta e religioso di origini milanesi Clemente Rebora (1885-1957), un padre rosminiano – famiglia a cui aderì quarantenne – che lo conobbe raccontava della sua conversione al cristianesimo. Dopo anni di esperienze tragiche e ricerche senza posa, fu mentre partecipava ad una conferenza sui martiri cristiani che, durante il suo intervento, sentì  una voce venire dal profondo e ammettere: “Anche io sono cristiano…” Uscito da quella tale chiesa di Milano, Rebora, riporta il fratello rosminiano, “non conosceva più se stesso”. Capisco all’improvviso che, dunque, il problema della nostra instancabile ricerca di noi stessi, non è tanto che non sappiamo chi siamo, ma che, a dire il vero, lo sappiamo fin troppo bene. Al contrario, quel che desideriamo non è che liberarci di questo peso – non essere se stessi ma qualcun altro, non sapere più chi si è…

 

Saranno dieci, quindici anni che mi preparo, che mi aggiro sul luogo di questa consapevolezza, a cui torno e ritorno: vocazione dello scrittore, dell’uomo, è morire per qualcuno, per uno che riconosciamo allora, infine, pieni di lui o di lei, per sempre, come amico. Io vengo da un altro tempo - io non so piu chi sono. Sono armato di speranza, io, ma non so dire piu una simile cosa: io. È una cosa di cui mi vergogno. Io chi?

 

Lo chiamava come fosse suo padre. Lui preferiva il silenzio.

 

"[L]e lotte che rinnovano la terra sono condotte da coloro che benedicono l’avversario." (Chiusano, L’ordalia)

 
Affrontare se stessi, dunque, giorno per giorno — osservare i segni della lotta intorno a noi, e soltanto chi si è arreso a stento, ormai, riesce a riconoscerli. Un’ombra le stelle del paradiso, quando ho provato a vivere ad occhi chiusi.

Le strade sono un faro aperto di lacrime 
— vorrei avere la vita del mare — i fari degli occhi — O padre rapito dal dolore.


Credo che soltanto gli amici riescono a suggerirti chi sei. Strade, strade, strade...


Cristo ha continuato a gridare il mio nome.


Non ho più paura. Ho imparato a scrivere nell'aria. Non vivo più per morire in pace  muoio in pace.



 






12.giugno.'24, A.C. 
 

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