venerdì 10 maggio 2024

Forse un sorriso può salvare “il lordo inutile del mondo”

Filippo Gili, Mai e poi mai, I Quaderni del Battello Ebbro, ottobre 2023 

recensione di AR


Una sagace ironia aleggia in questa raccolta di Filippo Gili, autore e regista teatrale che condensa – in scene  esistenzialmente impegnative ma sempre venate da un sorriso (a volte sardonico, altre malinconico, altre ancora raggiante… più spesso una mistura vibrante di questi aggettivi) – il sapore di una vita e non teme di porsi (e condividere con noi) le questioni che contano. Citiamo ad esempio da Vega, la poesia che apre il libro, un dialogo fra due stelle: “Fa tenerezza… sta cosa che scrivono poesie, / che usano parole, / (…) / Si ritrassero, riavvolgendo il tempo, / (…) / la rimisero dentro il cassetto, / l’aria del mondo, / (…) / e quella meravigliosa idea / di frantumar la verità, / per far due calcoli, / ed evitare, / tutti assieme, / di sparire.”

La condizione umana viene “esposta” nella sua drammatica preziosità. In Fragile tramonto, ad esempio, rivolgendosi a un tu (forse anche soggettivo) Filippo ci dice: “Collezionavi i giorni / non per render formidabile / il tuo nulla. / Ma per ammonticchiare, / fragile tramonto, / un’alba sopra l’altra.”

E ancora, da Breve storia dell’anima: “La tua anima era quella cosa lì, / accanto a quel tubo e a quella grata, / dove il lordo inutile del mondo / si faceva oro, / del tuo esser cieca.” 

I due “mai” del titolo sono quelli in cui si insinua la scintilla fuggente del nostro stare al mondo, un esserci che desidera istintivamente perdurare;  una esistenza carica sì di inquietanti perché, di dolori inesplicabili, di soglie definitive (“Dicevano, / quei tuoi nuovi, / tardivi muscoli, / di non voler lasciare questo mondo. / Non sapendo che quel tuo lasciarci, / era questo mondo.”, p. 40), ma anche di momenti di tragica e assoluta bellezza, come in Dall’alto di una fredda torre: “Si doveva tirare il freno a mano, / far diventare un po‘ più lunga / la foto di quel gusto / il criterio della mia bellezza. /(…) / Ma il tempo, / neanche il gesto di sedermi, / me le spostò di mezzo metro, / quella nebbia, / la mia torre, / e tutte le maestranze / che tentavo di fissare.”

Se per Filippo la vita è un “inciampo” di Dio che ha dato a tutti noi “il palcoscenico per recitar (…) quelle goffe pièces” (p. 57) che sono le nostre effimere esistenze; se il Nostro è esperto ”di trascendenze infrante” (p. 64); non può, fra quei due mai in cui ci è data la parola, del tutto evitare di sognare, di nominare, di ricercare un senso (o di escluderlo) a quella tara dal peso minimo che siamo (si legga Quei pochi anni eterni, p. 71), o di invocare una gioia (p. 74) che non sia timida, o di ritrovare, in un Bianco teschio, “l’ebete vaghezza dell’immensità” (p. 92).

Il libro è costellato di immagini stupende, di quadri in cui ci piace entrare, in cui ci ritroviamo. Così vorremmo essere (p. 106): “Sulla punta del cipresso. / Nel punto in cui / stanco di ripetersi, / s’azzera, / il riverbero del cosmo.”

In fondo Filippo sa che questo “crepaccio fra due mai” (p. 109) è l’unico momento che ci è dato per sperimentare, sia pur con rabbia (p. 113), l’infinito (p. 112), dalla cui spremitura nasce “l’istante / in cui vive il mondo…” (p. 114), dove a ogni generazione è lasciato “stupido e continuo / un ronzio / chiamato eternità” (p. 115).    

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