recensione di Sebastiano Aglieco
pubblicata in Compitu Re Vivi
pubblicata in Compitu Re Vivi
Rispetto al primo libro di Francesco Filia, LA NEVE, uscito nel 2012 (un mio commento si può ancora leggere qui), assistiamo, nelle opere successive, a una decisiva sterzata verso una visione più matura, e, per conseguenza, più funesta, delle sorti del mondo: in maniera perentorea nel suo ultimo libro, NELLA FINE, ma già a partire da questa raccolta in cui, senza scampo, Filia ci conduce per mano mostrandoci il teatrino nefasto dell’accadere, il suo risvolto tragico, la sua essenza di monotona recita.
Il testo incipitario è un piccolo riassunto di tutti i temi:
… quando correre non
sarà questo fuggire ma restare
in sospensione
tra un passo e la sua
impronta tra il respiro e un
selciato spoglie di pietre
e cielo.
p. 15
E dunque: una tenzone tra forze opposte: correre/fuggire, restare. Una stasi che non porta da nessuna parte: sospensione. Movimento e archeologia del movimento. La vita che si mostra nel respiro, che tuttavia non si esplicita totalmente. Lo sfondo di un panorama spoglio, di un telario che cade a pezzi. Lontano, il cielo.
Nessun tentativo di mettere in discussione la tragedia, piuttosto di prenderne parte, di rappresentarla in immagini, quadri, sconquassati dal movimento incessante del dolore o trattenuti nel singolo gesto violento alla maniera di Caravaggio.
I testi, in effetti, sono brevi; non sviluppano un discorso ma lasciano una traccia. Graffiano. Nessuna sezione, pausa; il discorso viene portato rapidamente al suo precipizio, proprio perché non ci può essere discorso ma solo contemplazione. Piuttosto c’è il tentativo di capire perché le cose s’incamminino in una certa direzione; sempre quella sbagliata, misteriosamente sghemba, al rovescio.
Eppure qualcosa è disposto a difendere il poeta, in questa nudità della tragedia umana, ed è l’amore, l’idea che il destino di ogni essere vivente non è singolo ma duplice, stampato nel negativo dell’altro. Due corpi si stagliano in un’alba senza colore, “al fondo / di un orizzonte di catrame / e bagliori”, p. 20.
Quindi si salvano poche cose: il tentativo di percorrere un tracciato, malgrado le sconfitte e le cadute; per caparbietà, per pietà di sé stessi, forse; “Un bambino” che “ancora corre / nel buio, nella trappola / di stanze e spigoli / dove l’attesa è / l’orizzonte, l’estate / di tramonti e balconi, l’attimo / senza tempo”, p. 27. Si salva la scrittura, la possibilità della scrittura di restituire il maltorto, “l’esatta misura che separa / ogni vita / dal suo urlo”, p. 32. Ogni poeta, in fondo, coltiva una fede spropositata verso la piccola luce che illumina l’essere, nello sfondo del grande buio del mondo, ed è in nome di questa luce che non si arrende.
A un certo punto leggiamo:
… l’ora
dei piedi interrati
e dell’azzurro del cielo
di questa gioia
ben riposta…
l’ora stabilita.
p. 41
Un improvviso sprazzo di luce; il corpo interrato, dalla cintola in giù, e luminoso, dal punto in cui il cuore si dirama fino al cervello. Immagino anche con le mani alzate.
Il seguito:
Afferro il profilo
smangiato dei palazzi
con lo sguardo sospeso
nel vuoto, con le mani
riposte nelle tasche
con l’ultimo
barlume di una mente.
p. 42
Leggiamo, insomma, di un’apocalisse nel presente, il tentativo di dire che le cose stanno morendo davanti ai nostri occhi e che, ciechi, non vediamo. Lo capisce il poeta, con le sue mani alzate e con il suo sguardo appuntito, il poeta che rinnova tutti i giorni il patto con la sua parola come un “anniversario / di questo / silenzio di / sillabe / e bianco, qui, / dove l’attrito / dell’aria prova, / di nuovo, che / esisto”, p. 37.
Vediamo questa figura aggirarsi tra le strade di paesaggi in contumacia, stridenti, decadenti. Lo vediamo che guarda e pensa, e dice:
Dimoro
in questo giorno senza titolo
nell’indistinto
tra una fine
e un inizio
ai bordi
di una marea
che non ha più contorni.
p. 48
Quindi si salvano poche cose: il tentativo di percorrere un tracciato, malgrado le sconfitte e le cadute; per caparbietà, per pietà di sé stessi, forse; “Un bambino” che “ancora corre / nel buio, nella trappola / di stanze e spigoli / dove l’attesa è / l’orizzonte, l’estate / di tramonti e balconi, l’attimo / senza tempo”, p. 27. Si salva la scrittura, la possibilità della scrittura di restituire il maltorto, “l’esatta misura che separa / ogni vita / dal suo urlo”, p. 32. Ogni poeta, in fondo, coltiva una fede spropositata verso la piccola luce che illumina l’essere, nello sfondo del grande buio del mondo, ed è in nome di questa luce che non si arrende.
A un certo punto leggiamo:
… l’ora
dei piedi interrati
e dell’azzurro del cielo
di questa gioia
ben riposta…
l’ora stabilita.
p. 41
Un improvviso sprazzo di luce; il corpo interrato, dalla cintola in giù, e luminoso, dal punto in cui il cuore si dirama fino al cervello. Immagino anche con le mani alzate.
Il seguito:
Afferro il profilo
smangiato dei palazzi
con lo sguardo sospeso
nel vuoto, con le mani
riposte nelle tasche
con l’ultimo
barlume di una mente.
p. 42
Leggiamo, insomma, di un’apocalisse nel presente, il tentativo di dire che le cose stanno morendo davanti ai nostri occhi e che, ciechi, non vediamo. Lo capisce il poeta, con le sue mani alzate e con il suo sguardo appuntito, il poeta che rinnova tutti i giorni il patto con la sua parola come un “anniversario / di questo / silenzio di / sillabe / e bianco, qui, / dove l’attrito / dell’aria prova, / di nuovo, che / esisto”, p. 37.
Vediamo questa figura aggirarsi tra le strade di paesaggi in contumacia, stridenti, decadenti. Lo vediamo che guarda e pensa, e dice:
Dimoro
in questo giorno senza titolo
nell’indistinto
tra una fine
e un inizio
ai bordi
di una marea
che non ha più contorni.
p. 48
Guardarsi intorno
non saper a chi dire
l’immagine che affiora
dal silenzio
remoto di nenie e stridori
di orari imparati a memoria.
Un’estrema scheggia
di gioia scarnita.
p. 49
non saper a chi dire
l’immagine che affiora
dal silenzio
remoto di nenie e stridori
di orari imparati a memoria.
Un’estrema scheggia
di gioia scarnita.
p. 49
Ogni cosa è allo sbaraglio
nell’aperto
di incroci e onde sul lungomare
nella lontananza
di finestre e voci,
in un tacere
che non chiede
il conforto di un inizio.
p. 52
Io credo che ogni forma di pessimismo non rappresenti una resa di pensiero e di sguardo ma una presa d’atto, un tragico realismo. Che coltivi l’etica dell’abbandono e della rinuncia a qualsiasi forma di potere. Non si tratta di un gettare le armi, ma di uno stato di attivazione del possibile, di un sommovimento della materia fino a che non si veda in essa, nel suo involucro tempestoso e disordinato, la possibilità di una quiete. Bisogna sempre giungere al fondo tragico delle cose, prima di risorgere:
Non ci sarà assoluzione
per le nostre gole affogate
da quest’immenso di cieli
e pietre levigate,
ma solo l’inevitabile:
essere, qui, ora
quel che già siamo.
p. 54
nell’aperto
di incroci e onde sul lungomare
nella lontananza
di finestre e voci,
in un tacere
che non chiede
il conforto di un inizio.
p. 52
Io credo che ogni forma di pessimismo non rappresenti una resa di pensiero e di sguardo ma una presa d’atto, un tragico realismo. Che coltivi l’etica dell’abbandono e della rinuncia a qualsiasi forma di potere. Non si tratta di un gettare le armi, ma di uno stato di attivazione del possibile, di un sommovimento della materia fino a che non si veda in essa, nel suo involucro tempestoso e disordinato, la possibilità di una quiete. Bisogna sempre giungere al fondo tragico delle cose, prima di risorgere:
Non ci sarà assoluzione
per le nostre gole affogate
da quest’immenso di cieli
e pietre levigate,
ma solo l’inevitabile:
essere, qui, ora
quel che già siamo.
p. 54
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