Recensione di Giancarlo Baroni
Nell’ampia, elegante, colta e accurata Prefazione il critico Fabrizio Azzali si concentra sul tema dell’infanzia, la indaga nelle sue sfumature, nei suoi enigmi e nella sua magia: «L’infanzia », scrive, «è una concomitanza inestricabile di tempo e di spazi. Potremmo tentarne una provvisoria definizione come luogo in cui l’adulto sente oscuramente di essere stato ma a cui non sa tornare, perché ha dimenticato la strada o perché il sentiero è da tempo franato o interrotto». Azzali sottolinea il fatto che il libro di Miccia, pur essendo «lieve e arioso, blandito dall’aura di quel tempo senza tempo […] contiene pure la narrazione struggente del procedere lento di una forma verso il suo imbrunire, del cadere e corrompersi delle cose e della ingannevole brevità della giovinezza, anche se mai espresso in tonalità apertamente drammatica».
Nell’istante in cui nasciamo automaticamente entriamo nel tempo, un tempo che ha una scadenza e una durata e che scorre e fluisce inesorabilmente come l’acqua di un fiume da una sorgente a una foce. È una dimensione temporale che si chiama vita. Quando veniamo inconsapevolmente e misteriosamente al mondo assumiamo un nome, una identità, una fisionomia, una forma; diventiamo parte di un ambiente che già esiste, di una storia che ci precede; indossiamo un corpo fatto di carne. Ed è proprio corpo forse la parola chiave e dominante della raccolta. Un corpo destinato a crescere, ad acquisire peso esperienze e memorie, a ricordare e a rivivere con nostalgia la naturalezza spensierata dell’infanzia («i nostri genitori / vorrebbero tornare / a vedere il mondo con i nostri occhi»); un corpo destinato a invecchiare, declinare e corrompersi, a svanire: «il mondo non si ferma / con noi non ha confini». Sembra che la nostra esistenza sia «un lungo addio all’infanzia».
La curiosità verso gli animali è tipica dell’età infantile, da bambini siamo attratti dagli animali come se ci sentissimo istintivamente parte del loro mondo: « attraversiamo il parco / fiduciosi di ricongiungerci / con gli uccelli che lo sorvolano». Sogniamo di tanto in tanto «animali misteriosi» e bestie esotiche, per esempio elefanti dormienti che tentiamo di domare «salendo sulle loro groppe».
Ci sforziamo di capire con un misto di sventatezza e paura fino a dove ci possiamo spingere, fino a «dove possiamo estendere / il corpo rimanendo / ancora noi stessi», osiamo, ci avviciniamo ai margini. A volte ci comportiamo crudelmente dando libero sfogo ai nostri istinti predatori, perché «non è ancora sottomessa la parte / rettile del nostro cervello» di uomini.
Curiosità, capricci, fragilità, giochi, ribellioni, rischi, avventure, sgridate, castighi, regole e divieti da trasgredire e da infrangere; ogni bimbo «porta con / sé il suo animaletto segreto / […] il nostro zoo / viaggiante delle meraviglie».
Nelle pagine del libro sono nominati, e mi pare accada per la prima volta nel Ciclo dell’acqua, numerosi animali: «un piccione in mezzo al sentiero / macchie di sangue un’ala / spezzata [… ]», «le piume / del canarino steso nella gabbia», «il verso della civetta», girini, «una rana immobile tra le stoppie», «la pelliccia candida del criceto», «un ratto ci spia tra i cespugli», «le tane delle talpe», «un coniglio in corsa», «il cinghiale morto», «orme di buoi», insetti, cavallette, «le api ronzano sulle viole», formiche guerriere che si dirigono «verso la regina che non / può aspettare per la fame / altrimenti tutte se le divora».
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