Mara Venuto, Vora, peQuod 2023
collana Portosepolto a cura di Luca Pizzolitto
recensione di AR
“Uno accanto all’altro sui cavi telefonici / i rondoni nel panorama / chissà come scelgono il posto, / l’ordine dei richiami, / austeri come morti in equilibrio sul filo / tra il vuoto e il vuoto.” (p. 22).
Come ci informa Giovanni Laera nella sua bella Prefazione, vora in pugliese indica una voragine. La scrittura di Mara Venuto in effetti ci inghiotte: “Il giorno della mia nascita / rapirono Aldo Moro, / una croce sul foglio di giornale / a dire che è importante / una vita fra tutte.” Sono i versi che chiudono la raccolta (p. 64). Risalendo a p. 63, troviamo questa folgorante terzina: “L’attesa evoca l’origine / sepolta nei ricordi degli altri, / un’incarnazione lunghissima.”
È come essere pro-vocati: affacciarsi sul baratro, o magari sprofondarci in questo magma poetico così asciutto e rifrangente?
Eccoci attirati da immagini splendidamente sferzanti: “I nostri borghi pieni di orgoglio, / l’intonaco sputato dal vento” (p. 61); “Gli altri, / una parola e la sua voragine, / una mortale separazione.” (p. 60); “Morire senza essere chiamati, scossi / un vivere monacale con Dio attorno.” (p. 59); “Il luogo eravamo noi e / poi l’abbandono.” (p. 51).
Il verso che abbiamo utilizzato come titolo di questa recensione chiude la poesia a p. 46 che inizia così: “Il perdono della casa si rintana / dove deposita il gocciare dei verti, / lavanda nelle fughe nere.” Si nota una personificazione de sentimenti, una vitalizzazione degli oggetti, una tensione emotiva dei significati che ci pone in stallo, ci interroga e, certamente, non ci lascia “tranquilli” e ci trasporta a un livello di consapevelezza maggiore, a volte spiazzante. Continuiamo la nostra compulsazione: “Sotto la nicchia che nasconde tutto, / il corpo e il dubbio, l’amore e l’impulso di oscurare, / si aduna un cane di passaggio attorno a qualcosa. / Resta il vuoto umano in questo transito.” (p. 40); “Lasciarsi scomparire.” (p. 38); “Sulla tua bocca / le strade della città di notte, / il silenzio della neve prima che soffra / un’orma scura sull’innocenza.” (p. 37); “Negli armadi / mostravamo i denti, / le bocche aperte sul buio. / Nelle vecchie foto di casa / in posa come non siamo, / ci scopriamo finiti nei gesti / ancora mossi i contorni.” (p. 29).
Il verso che abbiamo utilizzato come titolo di questa recensione chiude la poesia a p. 46 che inizia così: “Il perdono della casa si rintana / dove deposita il gocciare dei verti, / lavanda nelle fughe nere.” Si nota una personificazione de sentimenti, una vitalizzazione degli oggetti, una tensione emotiva dei significati che ci pone in stallo, ci interroga e, certamente, non ci lascia “tranquilli” e ci trasporta a un livello di consapevelezza maggiore, a volte spiazzante. Continuiamo la nostra compulsazione: “Sotto la nicchia che nasconde tutto, / il corpo e il dubbio, l’amore e l’impulso di oscurare, / si aduna un cane di passaggio attorno a qualcosa. / Resta il vuoto umano in questo transito.” (p. 40); “Lasciarsi scomparire.” (p. 38); “Sulla tua bocca / le strade della città di notte, / il silenzio della neve prima che soffra / un’orma scura sull’innocenza.” (p. 37); “Negli armadi / mostravamo i denti, / le bocche aperte sul buio. / Nelle vecchie foto di casa / in posa come non siamo, / ci scopriamo finiti nei gesti / ancora mossi i contorni.” (p. 29).
Il poeta ha recettori molto sensibili e preveggenti, il tempo ha sì una linearità ma la poesia la fa oscillare e riesce anche con un gesto elastico a riportarci vibrante il vissuto come pure a proiettarci già nel non-ancora e in qualche modo a “costruirlo”, Mara Venuto esprime molto bene questa vis profetica per cui un particolare somatico o un elemento magari trascurabile del paesaggio o un evento effimero ci introducono in altre dimensioni: “Raccontare di un parto / come dell’avvento di Cristo / e crocifiggere sul nascere l’umanità / di quel figlio.” (p. 31); “La luce del lampione / è una bocca aureolata sul buio della strada, / dalla finestra pregano gli occhi / rivolti a quella mistica pochezza. / Non desiderare altro, / se non di affratellarsi / alla vita lucidata dall’acqua di scolo, / alla grazia che piove dal cielo” (p. 28), “Esporsi con la fronte al soffio / dove arriva più forte, / mentre il carnefice alle spalle / è già debole, e resta vocale morente.” (p. 26); “due chiavi rose di ruggine / aprono il reliquiario delle nostra ossa comuni.” (p. 24); “sui talloni il peso del domani e il suo travaglio, / la lucida sapienza delle viole.” (p. 15).
Sottoscriviamo, alla fine di questo nostro piccolo viaggio nella Vora, quanto dice Giovanni Laera (p. 11): “Ai lettori il compito di accogliere il dono di questa voce come un trasalimento.”
Nessun commento:
Posta un commento