Angela Caccia, L’alveare assopito, Fara Ed. Rimini, 2022
C’è una sorta di ossimoro nel titolo che esprime metaforicamente anche lo sguardo poetico e quell’attenzione alle cose, tipica di un/a poeta. Un alveare nel suo insieme non dorme mai, sembra assopito perché di notte o in particolari condizioni di tempo, le operaie non escono per raccogliere il nettare; eppure, al suo interno ci sono sempre api in fervente attività. Un po’ quel che accade nel mondo degli umani, anche in periodi apparentemente oscuri.
Così nella raccolta di Angela Caccia “… I ricordi non muoiono / s’addormentano vigili / Io so di lei / la ricordo!…” in un dialogo di sguardi con una foto (forse della madre?) in uno “sparigliare” e nello “sciamare di presenze” ferve e si esplicita un mondo, pur nella quiete attenta dell’osservare e dell’osservarsi.
“Avesse un rumore la solitudine / sarebbe di silenzio / e quello di una stanza d’albergo non dà eco / eppure / avanzano tamburi al suono di neve”. Quiete e silenzio, così diversi, quanto lo sono il tempo e i giorni; ma la poesia non spiega, non descrive, la diversità: replica domande “Sentinella / quanto resta del giorno?” e ancora “quale tempo / s’accorgerà che ce ne siamo andati?”
La poesia di Angela Caccia “affastella” pensieri e immagini, in uno stile originale, apparentemente mai chiuso, come la notte che non è fatta solo di buio. Sembra che lei viva in un tempo “che si è fatto breve” – il kairòs evangelico, ma anche l’esistenza contratta dal web e dai mezzi di trasporto superveloci – eppure si affretta, sembra, a “sbirciare la pagina che segue” per voler capire se i desideri contano più di quello che non abbiamo “se la nostra è più fame di domani che digiuno”; se ci può ancora rendere felici un tempo che compensa con la piacevolezza esteriore di luoghi e situazioni sia la sua avarizia di promesse, che la nostra povertà di attese.
Né mancano nella sua poesia fughe di immagini ardite che riecheggiano miti platonici – il desiderio che sia l’ombra a guidare il corpo e non viceversa – per esprimere la solitudine e la “nudità” di chi scrive “La verità / è che si entra indifesi nel verso” dove ciascun istante di suono e senso contiene l’impronta di ogni “sé disperso” i tanti toni dell’io e delle umanità perdute. Angela Caccia sa bene che “dislocare vita sul foglio” per dare consistenza alla poesia e espressione al ricordo, è impresa ardua e spesso si è traditi dalle stesse parole che si tramutano in “pietre di inciampo”, in scandalo; e tentare comunque una forma – come più di qualcuno fa – non è sua intenzione, lei così schietta e profonda, così esigente in sé.
“Avesse un rumore la solitudine / sarebbe di silenzio / e quello di una stanza d’albergo non dà eco / eppure / avanzano tamburi al suono di neve”. Quiete e silenzio, così diversi, quanto lo sono il tempo e i giorni; ma la poesia non spiega, non descrive, la diversità: replica domande “Sentinella / quanto resta del giorno?” e ancora “quale tempo / s’accorgerà che ce ne siamo andati?”
La poesia di Angela Caccia “affastella” pensieri e immagini, in uno stile originale, apparentemente mai chiuso, come la notte che non è fatta solo di buio. Sembra che lei viva in un tempo “che si è fatto breve” – il kairòs evangelico, ma anche l’esistenza contratta dal web e dai mezzi di trasporto superveloci – eppure si affretta, sembra, a “sbirciare la pagina che segue” per voler capire se i desideri contano più di quello che non abbiamo “se la nostra è più fame di domani che digiuno”; se ci può ancora rendere felici un tempo che compensa con la piacevolezza esteriore di luoghi e situazioni sia la sua avarizia di promesse, che la nostra povertà di attese.
Né mancano nella sua poesia fughe di immagini ardite che riecheggiano miti platonici – il desiderio che sia l’ombra a guidare il corpo e non viceversa – per esprimere la solitudine e la “nudità” di chi scrive “La verità / è che si entra indifesi nel verso” dove ciascun istante di suono e senso contiene l’impronta di ogni “sé disperso” i tanti toni dell’io e delle umanità perdute. Angela Caccia sa bene che “dislocare vita sul foglio” per dare consistenza alla poesia e espressione al ricordo, è impresa ardua e spesso si è traditi dalle stesse parole che si tramutano in “pietre di inciampo”, in scandalo; e tentare comunque una forma – come più di qualcuno fa – non è sua intenzione, lei così schietta e profonda, così esigente in sé.
Per l’Autrice poetare è difficoltà di “vuotare le parole” come otri da versare fino al loro “lato ghiacciato” ma senza farsene sommergere né compiacersene: il dolore ha spesso un gusto dolce, al quale non si vuole rinunciare. Così lei conserva la “memoria del bianco” – la chiarezza, la luce – il foglio sul quale si può ancora scrivere il diario del ritorno, una traccia minima che pure fa uscire dal buio dell’assenza: il ritorno è la memoria, dove entra il tempo a dare colori nuovi all’infanzia, ma anche a ricordare che “l’orco non se n’è mai andato”.
Verrebbe di danzarla
quest’aria che inizia e si fa
spiffero Verrebbe
da sbirciare la pagina che segue
capire se la nostra
è più fame di domani che digiuno
se attende rivelazioni – a settembre
le nuvole s’ammatassano –
verrebbe da chiedere all’Angelo
colpevole dei veleni di ciò che passa
– Sentinella
quanto resta del giorno?
***
Se vivere
è questa inerme militanza
al bene e al male i versi
non avranno mai la forma di
un amore privato
S’impara tutti per prossimità
e tutti le stesse le cose:
vuotare i minuti insidiati
riempirli del sole a disposizione
trovare i giorni che mancano a
riallacciare la vita alla vita
isolare la pozza senza luna
***
Mi piacerebbe
per una volta
srotolare l’ombra in avanti:
fosse lei a pencolare il corpo
La verità
è che si entra indifesi nel verso
ad ogni semitono
il timbro di un sé disperso
***
Dislocare vita sul foglio le dà
spessore ma un’accozzaglia di parole
non trova il bandolo – ovunque
solo pietre d’inciampo
Tutto sa di tenerezza e tutto è distanza
non è facile togliere il silenzio alle cose
– … smalizialo allora il verso
tenta l’approdo qualunque! – ma
la voce si incrina
Dicono sia la perdita
la misura dell’amore e a me resta
un pezzo di vita mancata dalla
parte del buio
***
Ti direi che è facile vuotare
le parole conoscerne il lato
ghiacciato
o l’alveare assopito – alcune
a deviarne una sillaba
tornano crepe – bisognerà
attendere che il sole le asciughi
scongiurare solitudini in cattività
gli alberi in lutto ostinato e altre
ghiottonerie del dolore – tu
conserva sempre
memoria del bianco
un diario minimo del ritorno
***
L’infanzia
sul meridiano del bel ricordo
latte che non inacidisce
Il tempo la netta la ricolora
racconta che l’orco
non se n’è mai andato
Fa presto il tramonto
ad arrochire i resti del giorno
i contorni non danno più noia
e gli occhi si gingillano
in ombre di antiche tenerezze
– mi chiedo se la
notte sappia
che non è fatta solo di buio
Verrebbe di danzarla
quest’aria che inizia e si fa
spiffero Verrebbe
da sbirciare la pagina che segue
capire se la nostra
è più fame di domani che digiuno
se attende rivelazioni – a settembre
le nuvole s’ammatassano –
verrebbe da chiedere all’Angelo
colpevole dei veleni di ciò che passa
– Sentinella
quanto resta del giorno?
***
Se vivere
è questa inerme militanza
al bene e al male i versi
non avranno mai la forma di
un amore privato
S’impara tutti per prossimità
e tutti le stesse le cose:
vuotare i minuti insidiati
riempirli del sole a disposizione
trovare i giorni che mancano a
riallacciare la vita alla vita
isolare la pozza senza luna
***
Mi piacerebbe
per una volta
srotolare l’ombra in avanti:
fosse lei a pencolare il corpo
La verità
è che si entra indifesi nel verso
ad ogni semitono
il timbro di un sé disperso
***
Dislocare vita sul foglio le dà
spessore ma un’accozzaglia di parole
non trova il bandolo – ovunque
solo pietre d’inciampo
Tutto sa di tenerezza e tutto è distanza
non è facile togliere il silenzio alle cose
– … smalizialo allora il verso
tenta l’approdo qualunque! – ma
la voce si incrina
Dicono sia la perdita
la misura dell’amore e a me resta
un pezzo di vita mancata dalla
parte del buio
***
Ti direi che è facile vuotare
le parole conoscerne il lato
ghiacciato
o l’alveare assopito – alcune
a deviarne una sillaba
tornano crepe – bisognerà
attendere che il sole le asciughi
scongiurare solitudini in cattività
gli alberi in lutto ostinato e altre
ghiottonerie del dolore – tu
conserva sempre
memoria del bianco
un diario minimo del ritorno
***
L’infanzia
sul meridiano del bel ricordo
latte che non inacidisce
Il tempo la netta la ricolora
racconta che l’orco
non se n’è mai andato
Fa presto il tramonto
ad arrochire i resti del giorno
i contorni non danno più noia
e gli occhi si gingillano
in ombre di antiche tenerezze
– mi chiedo se la
notte sappia
che non è fatta solo di buio
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