Resto, un occhio socchiuso a spese della luce,
bevo la calce illuminata della notte.
Si sente la città, nella testa
rissosa di un’estate che è già
alla movida di quartiere, che ormai si balla
pure sui cornicioni.
Mai così semplici, per nudi
décolleté e bottiglia d’astri,
ma non contano i figli
a una spinta di sonno
e sia scommessa dell’aria
pei bimbi alla questua della luce.
Ancora non lasciamo di lottare,
la piazza sgombra alle travi del futuro:
aspettiamo chi cerchi le parole
e torni a reclamarci, dica chiaro
in quale uomo cammina la specie,
in quale mano venne
il sasso che ha bevuto
gli schemi della notte.
***
STAZIONE II
Nella stanza (stilla di luce
la baracca urtata da percosse)
è il panico centrale
che disperde ogni calore.
Sono donne, bambini sommessi
da uomini a una signoria di sguardi,
siedono con le ombre,
persino annullano i morti,
se il custode del grembo disceso
alla catena di comando
sibila il suo spirito millenne.
Tu non dire della foresta
dove hanno casa, assottigliata
nella calce in fiamme,
se alla riva infinita di lavoro
è il pensiero che sbocca
quieto a valle delle risorgive. Non dire
dell’obiettivo tra le nevi,
dell’orfano al suo vivo padre,
ma il chiaro giorno che ha sete di giustizia
e li conta a uno a uno
i vivi chi scrive sottovento.
***
STAZIONE IV
Essi vivono, attorno
la luce polverosa di sculture
patriarcali, sotto gli orli
ovali delle parrocchie, pietra ebete
di edifici religiosi.
Stanno, nel loro basso, tribù attorno
un santo dall’occhio
torbido e scollato di subacqueo,
di trapassato ministro del culto.
Forse sognano bianche svizzere,
viali in croce d’oltralpe,
dov’è dominante
il circuito blindato del denaro.
Vivono, lavorano, sognano
ciascuno assopito nell’altro,
le stesse ambasce, portando lo stesso
cappotto, dal cielo lavato dall’alba
ai tramonti in cavezza, di notte per oltre le sere
prefate al profumo di lune
interrotte.
***
E per favore non dite
che noi siamo immortali, siamo
atto non dovuto, costellazioni
pure diseguali. C’è chi rimane
al fatto compiuto, di sé
pago e in pace non prepara guerra,
o viceversa smette
di credere iscritto al registro delle
opposizioni. C’è chi crede
che questo sia l’affare del secolo,
tra queste fabbriche col ricordo
di braccia in protesta, travi
in croce, nella sera di ruggine.
Così resti inchiodato allo spazio,
a una luce in calo d’altri tempi, il morto
per amore, il morto per cause
di forza maggiore.
Fabio
Barissano nasce a Napoli dove vive e lavora come insegnante. Suoi componimenti
hanno ricevuto premi, menzioni e segnalazioni in diversi concorsi letterari.
Altri testi sono apparsi nella rivista letteraria “Kairòs”, nel blog online
“Alma Poesia”, nel magazine “Anteprima poetica” della casa editrice “Homo
Scrivens”, nella rivista “Mosse di Seppia” e nella “Bottega della Poesia” del
quotidiano “La Repubblica”.
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