Diego Conticello
Lo sguardo, la sua ferita acuta
*
Pareidolia
Tempi erano quelli
di pura sopravvivenza
quando la vista
scorgeva tra forme inanimate
profili predatorî
che l’occhio primitivo più non
distinse dai vivi.
La prima paura artificiale
fu pertanto un’ipercorrezione
ad aumentare la certezza di non
perire, un pericolo vuoto
a infoltire la schiera
del terrore.
Oggi, caduti gl’idoli, pare
rimanga a monito
di una incompleta evoluzione,
un buco tra tanti nella mente.
Commento.
Una visione allarmata, che nello scorcio di un tempo indefinito o paradossale fa misteriosamente emergere – inquieta e sconvolgente illuminazione – l'immagine ancestrale di un ricordo (o di un miraggio?) di tenebrosa ambiguità. Ciò che si è visto, o intravisto, o sognato, nella sospensione di quella mitica e perduta cornice temporale, parla di una remota pareidolia tanto ineffabile quanto minacciosa, dove "tra forme inanimate" si palesano, come inattese apparizioni del nulla, "profili predatorî" vicini al sonno cupo della morte o della distruzione.
Così Diego Conticello (Catania, 1984), poeta tra i più fini della sua
generazione, delinea potentemente, in questo inedito, i confini di un oscuro
paesaggio d'ombre che ci mostra l'intera vita come un' immensa catabasi
luttuosa, già tutta segnata (anzi, di più: ferita) dal limite opprimente di una
"incompleta evoluzione" : un paesaggio, ben inteso, dal quale gli
stessi Dei sono fuggiti da tempo immemorabile e che ci appare fermo per
sempre, e insalvabile, e vinto. Resta soltanto, nei versi, il sentimento di un
afasico vuoto che a noi stessi rivela, come un ombroso messaggero, l’impermanenza
buia del nostro (non) essere qui, e l’inane materia di cui è fatto il nostro breve
viaggio comune; e ogni pensiero o desiderio non è che un’orma prontamente
abrasa: “un buco tra tanti nella mente”.
Una poesia, dunque,
dallo sguardo estremo, che s’attorce dolorosa su sé stessa e che, alla fine,
sembra mirare il mondo (scivolato nella dissolvenza di un crepuscolo non più frenabile)
dal fondo di un immisurabile teatro di rovine.
[In alto, un' opera di Corrado
Cagli, Milarepa, del 1967].