Antonio Merola
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Hai cominciato di nuovo…
Hai cominciato di nuovo a scappare in una fiaba
contro la fine del mondo: ora ringrazi la mancanza
di una terra nuova: il pianeta non basta
per seppellirci tutti. Allora hai distrutto
delle foglie per aggiungere altre rovine
alla catastrofe: sostieni che la bellezza sia di proprietà
esclusiva degli alberi scampati alla carta:
non hai mai creduto alla corrispondenza taciuta
tra la vita e il libro così sei rimasta in piedi
in una metro: nessuno vuole cedere il proprio posto.
Un racconto labirintico, in cui il mostro da rincorrere e di cui liberarsi appare riflesso sullo specchio con il nostro medesimo volto. Antonio Merola (Roma, 1994) si rivolge alle parole utilizzandole come uno strumento di antiesorcismo e di coraggiosa osservazione del continuo disastro dell’esserci. Il luogo descritto è metamorfico e inquieto perché a cambiare è sempre l’inquadratura dello sguardo e dell’attesa: un luogo inospitale, un teatro bruciato, nel quale non potrai certo sperare di trovare un’uscita di emergenza o una risposta pacificante. E la poesia si muta, allora, in una fiaba feroce che si mostra come morte e sperdimento del senso, e come funebre e dura interdizione della comunicazione tra tutti gli individui che, ciecamente e insieme, precipitano nell’ombra fredda e vertiginosa della caducità e del vuoto. Eppure, la forma linguistica esprime una sua ferma devozione alla simmetria, a una compostezza del dire che quasi contraddice l’arso, malinconioso cinismo della sua nera narrazione; ed è, certo, una simmetria di difesa (e, dunque, di attacco) che, tuttavia, non concede alcuna facoltà sublimante o riparatrice alla lingua della poesia: «Non hai mai creduto alla corrispondenza taciuta / tra la vita e il libro». Nulla risarcisce, nulla salva, nulla cancella o ricuce: perché sempre ritorna, sulla scena di questo cupo teatro spezzato e divorato dalla finale insignificanza degli eventi, «l’interferenza perturbatrice della caducità» (Freud), il taglio crudele del suo sguardo poco propenso ad accettare l’inesplicabile male iscritto nelle cose.
In alto, un’opera di Brooke DiDonato (Canton, 1990).