di Luigi Fontanella
ATTIVA e rilevante la poesia attualmente prodotta nel nostro Mezzogiorno che ben risponde all’allarme lanciato un anno da un 7 libro-pamphlet curato da Alessandro Di Napoli, Giuseppe Iuliano, Alfonso Nannariello e Paolo Saggese (“Faremo una carta poetica del Sud”, Delta 3 Ed., Introduzione di Alessandro Quasimodo). In quel libro veniva ingaggiata una battaglia culturale, tuttora in corso, per richiamare l’attenzione dell’Intellighenzia editoriale italiana sulla frequente quanto vergognosa esclusione, nei correnti volumi antologici pubblicati per le scuole secondarie, di poeti italiani meridionali. E qui mi riferisco anche a poeti ormai storicizzati, come Sinisgalli, Cattafi, Scotellaro, Calogero, Piccolo, Bodini, Gatto, De Libero, per non dire di più recenti, meritevoli rappresentanti (Sovente, Di Biasio, ecc.). Ora il caso vuole che in questi ultimi due anni io abbia ricevuto non pochi libri di poesia, variamente interessanti, di autori meridionali (in particolare dell’area campana), sui quali vorrei richiamare l’attenzione di chi legge questo giornale. Accenno sinteticamente, dato lo spazio, solo a qualche autore esemplare, cominciando da un libro straordinariamente vitale pubblicato dal salernitano Mario Fresa («Uno stupore quieto», Prefazione di Maurizio Cucchi). Dico “vitale” perché una delle caratteristiche essenziali della sua versificazione è costituita da una sorta di pullulante “monologo interiore” nel corso del quale l’autore entra ed esce di continuo da se stesso. La sua è una poesia narrativa e interrogativa insieme, quasi un volersi tuffare in un grande specchio nel quale egli è soggetto riflesso e soggetto riflettente, mentre, tutt’intorno a lui, va scorrendo la realtà (o “irrealtà” quotidiana, come avrebbe ben detto la Ortese). Di questa franta quotidianità Fresa va afferrando e sciorinando brandelli testimonianti l’insensatezza che pur tuttavia costituisce la base di quel ronzare reale e incessante che si dirama (d)all’interno dei continui mini-eventi di cui lui si trova a essere spettatore e attore. Di tutt’altro genere per espressività acuminata e intertestuale è «Mimetiche», di Eugenio Lucrezi: poeta, musicista, direttore di “Levania”, di origine salernitana ma da anni residente a Napoli. Con Lucrezi condivido lo stesso appassionato interesse per grandi scrittori come Kafka e Landolfi, il loro spirito caustico e visionario. In omaggio a quest’ultimo, l’autore dedica un’intera sezione (“Viola di morte”), che è anche il titolo di una struggente, indimenticabile raccolta di poesie dell’autore di “Cancroregina”. Di Carlangelo Mauro, napoletano dell’area vesuviana (vive a S. Paolo Belsito), poeta e saggista tra i più sensibili, segnalo qui «Il giardino e i passi», raccolta soffusa di memoria e para-onirismo, dove la prima categoria si distende su figure, eventi e luoghi del passato: gli affetti familiari, il nonno, la mai dimenticata madre - alla quale l’autore ha già dedicato un intenso libretto undici anni fa. Ma poi, in ultima analisi, è il tono diffusamente elegiaco a governare la poesia di Carlangelo, con continui scarti, ben individuati da Cucchi in Prefazione, improvvise agnizioni e amare “constatazioni. Della napoletana Marisa Papa Ruggiero segnalo a forza «Di volo e di lava», raccolta dal tono teso e di suggestiva mobilità linguistica. L’essenza del libro, prefato da G. Pontiggia, è una sorta di catabasi nella propria “Stimmung”, come a volerne scardinare le interne pulsazioni e contraddizioni, conflitti, proiezioni. Il “mythos”, rivissuto anche attraverso una componente di efficace teatralità, diventa talora afflato cosmogonico, che però scaturisce soprattutto da una acuta quanto ribelle capacità osservativa (la “lente anarchica” dell’Autrice) dentro i fenomeni della Natura, dietro i quali si aprono squarci inquietanti, anditi metafisici d’indubbia forza tellurica (le latomie di Siracusa). Accenno infine a due libri di poeti vesuviani: Raffaele Urraro e Salvatore Violante. Del primo, autore di «La parola incolpevole», basterà insistere sull’appassionato impegno civile, che si coniuga intensamente con la dimensione introspettiva: un connubio sul quale si articola la Parola, l’unica arma di combattimento e di consolazione del poeta: testimone di “questo mondo scomposto”. Di Violante segnalo «La meccanica delle pietre nere». Le “pietre nere” sono quelle vulcaniche cariche di venefiche e diaboliche proprietà. Ecco allora che la natura “torna matrigna, fatta matrigna dall’uomo, spesso eroe di un infinito romanzo criminale (…), riempite di deiezioni e intasate dal malaffare che imperversa” (Carlino). Una poesia, questa di Violante, aguzza, spietata, dolorosa – benché la pena del vivere venga ogni tanto temperata da scatti d’ironia e disincanto.
(da "America Oggi", New York, settembre 2014)
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