su In Crepa di melograne di Matteo Bonvecchi
recensione di Francesca Pagnanelli
L'ho cercato e l'ho trovato, il verso che brillava: “E beato chi non nasconde / il suo bisogno…”
Sì, bellissimo, ma non era lui.
Eccolo:
“Ma tu da quel fango di lacrime
e sangue rifa’ ti prego ogni cosa
e dopo il tuo grido il trionfo
nell'altro giardino
- quello fiorito - nessuna pietra
ti resista”
Era questa la perla che brillava, Gan, il giardino.
E fa rima con tutte le riflessioni che leggiamo quest'anno nel Purgatorio di Dante, la cornice dei superbi, il Paradiso terrestre, Beatrice. E poi Ulisse che piange nell'isola di Ogigia, perché quella non è vita: tutto insieme.
Grazie, perché la filigrana di queste parole è fine da far tralucere il Suo volto amabile. Perché è Lui l'interlocutore di questi versi, quello che ti fa le domande, quello che ti fa ritrovare nei funghi il profumo dei monti, e il profumo della sera. Vengono da Lui domande, silenzi. E questo è bellissimo, e fa bene, e nutre. Ed è bello anche immaginarseli, questi dialoghi di cui è trascritta appena una parte: è qualcosa che fa respirare.
Ma la ferialità di questi versi è solo apparente, e questo li limita: alla fine, ha accondisceso l’autore?
"Ma non avere orgoglio / non giudicare a cuore duro - m'implori"
Solo questo? Lo Spirito Santo, solo quando è sublimità, e poi secondo noi? Solo quando è condividere la Croce, o sacrificio, o amore altissimo? E quando dimentica l'ebraico e il greco e pure il latino? E non è nobile, oppure è nobile e danza davanti all'Arca dell'Alleanza. È bello lo stesso?
Tu, ti senti bello lo stesso?
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