Carmine De Falco, Meduse di Dohrn, Bertonieditore, ottobre 2020, pp. 118)
recensione di AR
Italiano, inglese, napoletano e tocchi di francese e danese si mescolano, a volte, in questo libro, quasi a performare la frammentazione affettiva, mentale e sociale di questa nostra epoca. Pur l’autore dichiarando trattarsi di “un’opera interamente Covid.free, che si è stratificata negli anni (…) fino al termine dell’anno 2019” (Ringraziamenti, p. 117), vi troviamo considerazioni e “rappresentazioni” che preannunciano con poetica incisività il periodo che stiamo vivendo: “Sarà colpa di questo smartphone che non rimbalza e che hai rotto / e che rimanda radiazioni cosmiche e riempie di dolore la testa. / (…) / O sarà per l’impossibilità del controllo, questo aver delegato / l’esperienza con la sfiducia / Sarà che dovremmo tornare allo scorrere del tempo medievale, / liberarci dai progetti, volgere i passi a un pellegrinaggio più lungo (Sezione III, “Sature”, p. 102).
Siamo immersi in un mondo digitale ricco di nozioni e condivisioni, capace però di asfaltarci, di omologarci, di profilarci togliendoci l’anima, di depistarci con fake news (“Deep fake face metto / la faccia che meglio mi dona…”, p. 14). Ci è richiesta un’etica della responsabilità che tendiamo ad eludere per non fare fino in fondo i conti con noi stessi: “È così facile che gli altri smascherino / Le nostre imposture soprattutto quelle / Che non abbiamo mai saputo di avere” (ivi, p. 98).
La sezione centrale, “Quadre danesi”, si chiude con una ironica canzone napoletana il cui ultimo verso recita: “ca stu munno ’o stammmo sfracellanno” (p. 76). Più a monte troviamo questi versi: “Solo le pause dal vivere ti fanno vivo veramente” (p. 73); “La poesia non sa più raccontare” (p. 66); “L’acqua è da sempre la protezione / che cerchiamo. La rottura iniziale, / che ci ha gettato a terra a fare danno” (p. 61); “Non si può vivere il luogo che vogliamo / Se la somma della sua desiderabilità / È data dalla distanza per la differenza” (p. 57); “Bisognerebbe abolire l’avversativa, la sua pretesa di innocenza / Congiunzione preferita di un popolo subordinato, ma” (p. 53).
Risaliamo alla Sezione I, intitolata “Poesie dei dopo disastri annunciati”, e vi troviamo l’urlo pacato di un essere umano che desidera scuotersi e scuoterci dall’apatia: “Carichi un altro pezzo di te / un tratto di pelle più nudo del nudo // immaginando il tempo che saremo / pensieri che compiono // resti intrappolato qui / in uno qualsiasi. In uno dei corpi possibili. / Che pesca e non può non disattendere / quest’ansia di eternità” (p. 47). A p. 46 c’è il verso napoletano con inserto inglese che ho scelto a titolo di questa recensione: è una immagine stupenda, mi ricorda Borges per la sua icastica pregnanza che non ha bisogno di commenti. Così non hanno bisogno di glosse i distici che chiudono le poesie a p. 43 – “non ci sarà nessun altro davvero / nessuno vero” – e a p. 35 – “È tutto uno sborrare di macchine / che consolano voluptas dolendi”.
Carmine è ben conscio del cambiamento climatico (“Sempre più la terra preda trasformata”, p. 13), degli ingiusti squilibri economici e delle guerre fomentate che portano alla fuga masse di migranti costrette a rotte pericolose, violente e mortifere.
Della transitorietà (distruttiva se attenta solo ai privilegi arroccati di pochi, preziosa per il bene che possiamo attuare) della condizione umana, dei limiti dello scientismo: “Ma l’oltremondo che pianifichiamo con la scienza / È troppo di là da venire per poterci salvare” (p. 15); “Nel lungo l’umano è destinato / a non ritornare, solo resta il divino” (p. 19); “La decrescita avverrà per disfunzione. / La nostra razza non sa tornare indietro nel tempo” (p. 21).
La scrittura di Carmine ha non di rado una scansione prosastica giocato su versi anche molto lunghi: io la preferisco quando si concentra su versi che non superano le dodici sillabe (quasi tutte le citazioni fatte qui sopra rientrano in questo limite) perché mi è più facile entrare in sintonia con il ritmo cardiaco, emozionale e incisivo, della sua poesia.
Dopo aver letto la Prefazione di Luca Ariano (curatore della collana “PoesiaLab”), potrebbe essere utile leggere subito anche la postafazione di Ferdinando Tricarico: entrambe danno utili ed empatiche coordinate per assaporare al meglio questa raccolta dallo stile inconfondibile. Il titolo fa riferimento alla Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli e a una specie medusa capace di ringiovanire, come la poesia.
Nessun commento:
Posta un commento