lunedì 23 novembre 2020

È necessario andare oltre

Alessandro Ramberti, Faglia – Faŭlto, Fara 2020

recensione di Roberto Morpurgo



 

Brevemente abitata è l’immanenza che appare come protagonista iniziale e poi spesso sottesa alle poesie di Alessandro Ramberti. Immanenza che prima che nel verbo si nega nel verso, i cui frequenti e spesso eloquenti enjambements stanno lì a fare quel che forse non sarebbe possibile dire: è necessario andare oltre, procedere – a dispetto della vanità che ci trattiene e in cui inevitabilmente indugia ogni impresa versificatrice – verso una fine ben annunciata nel tono dimesso di quasi tutti i suoi incipit.
E la trascendenza non si affida più al verso (al discorso) ma allora al nome puro o assoluto (sciolto da qualsiasi dubbio o chiamata in correità: Davide, Daniele, vangelo, qohèlet). Similmente la musica come già la immaginifica pittura si schermisce nelle pudiche geometrie di questi versi, che scandiscono con pitagorica precisione (dieci sillabe, dieci è la somma dei primi quattro numeri e delle prime quattro idealità dell’esprit de geometrie: punto, linea, triangolo, quadrato) l’indefinita varietà delle ritmiche e delle lunghezze assolute (è tipico degli accenti ancorare le sillabe come i corpi morti fanno con le barche in rada: e le cime di ormeggio possono liberamente ciondolare – il guinzaglio è lungo… - allo zenit e tutt’attorno al loro invisibile nadir).
Si alternano in questo schivo libricino sentimenti di altalenante lena. L’alacrità dello spirito che testifica e l’ignavia di quello che si vorrebbe rapito dal vento – metafora, già, dello spirito: forse più del salvator mei però che del dei:

i laghi degli occhi luccicanti
annullano i nessi del pensiero
più grande è il destino delle immagini


e poi poco più a valle questa delicata reprimenda ‘con mittente senza destinatario’:

nessuno è isolato e chi si pensa
migliore non ha ai piedi ali
ma il cuore inceppato e travisato

vorrebbe vedere dalla cima
del monte più alto non dal basso
dal lato di sé che meno stima.


Alcune delle poesie onde furon tratti codesti lacerti vengono poi offerte (in cauda origo!) in una puntuale versione in Esperanto. Esperanto significa speranzoso, e testifica di un positivistico ottimismo nel riscatto di un ecumene in verità più martoriato dalle guerre che da Satana – ma in chi legge Ramberti, fine esperantista, questi versi fanno echeggiare, più che la speranza mondana e assai più che il monito al riscatto ultraterreno, una mestizia distratta, o ‘fintamente distratta’, e una malinconia che si affaccia - che trapela qua e là e talvolta - fra i richiami rituali come un’ospite forse non messa nel conto, ma infine la meglio servita dai commensali tutti.
E come l’esperanto non appartiene a un popolo determinato, né è funzione cui corrisponda un organo elettivo, così sembra tendere questo libro-ponte a una universalità non pregiudizialmente e pregiudizievolmente compromessa dall’adesione (radicamento) in una lingua, o in una fede (sebbene l’aspirazione a emanciparsi da ambe le zavorre sia ovviamente destinata a fallire; poiché di tutto possiamo liberarci fuorché di noi stessi: ecco dunque l’italiano di Ramberti, quasi neutro, misurato, prudente non meno che severo, attento a non rischiare lo Scilla della Romantik religiosa né poi o peggio il Cariddi del tracciato neoclassico).
E quasi in queste pagine pare che a dire la fede, sovente chiamata in causa ore rotundo, sian poi più le pause, i sottintesi, i salti, gli iati, le cesure – in vece di parole ‘positivisticamente’ o ‘fideisticamente’ enunciate: i frequenti enjambements, le rime alternate a fine brano… (si ricordi come la rima non sia figura semantica ma anzi musicale, divina: non meno della pausa - ma poiché l’una è fatta di lettere, trae in inganno anche l’orecchio più canonico). Pause e saltelli che sembrano affettuosamente ammonire la pervasiva immanenza e la elusiva imminenza dell’amico che chiede, del viandante che si sofferma, a che non troppo chieda né più a lungo si soffermi: in ragione di un buio e di un silenzio che non sono detti perché non sarebbero abitabili: e solo come ‘nomi esterni’ (Daniele, Davide…) condivisibili.
La mia copia di Faglia – Faŭlto contiene una dedica autografa che non sono riuscito a capire, e che per tutto dire mi apparve ancor più azzardata di quelle che io stesso, pur raramente, appongo alle mie cose. L'ho preso come un signum subtilis (tanto più che la sua parte frastica è virgolettata): del fatto che non si capisce tutto perché tutto capire non si può, né forse si deve.


Bulgarograsso, novembre 2020

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