Marco Colonna, Ho scritto questo salto, Fara 2019
recensione di Ida Iannella
1° classificata al concorso Narrapoetando 2019, FaraEditore, è un’opera di ampio respiro, dove l’esperienza del mondo si fa poesia e diventa impegno sociale, politico, umanitario. Una raccolta complessa, non immediata che ti fa meditare, che bisogna assaporare e digerire per carpirne i mille significati. Questo suo “disboscare”, ridurre all’essenziale la grammatica del verso, crea suoni e accostamenti musicali che rendono evanescente ogni situazione. La crudele realtà della morte, rappresentata dalle prime tre liriche, è un’analisi accorata e partecipativa di quello che accade nel mondo: l’eterno ciclo della vita preconizzato dagli antichi filosofi. Qualcuno sceglie volontariamente di entrare a far parte di questo eterno riciclo, volendosi confondere col tutto; la paura di vivere è più forte della paura della morte. Restano lì, sul tetto, le scarpe appaiate che continueranno il loro cammino senza la proprietaria.
Il mondo fagocita anche chi non avrebbe voluto chiudere i suoi giorni anzitempo, non era pronto al salto: la morte è presenza senza tempo.
Il disessere, la non realtà, tema della seconda sezione della raccolta, ci trasporta in un esistere disarmonico e dissociato, in uno spazio dove “Nulla non serve a nulla” e “tutto ciò che conta si allontana dalla terra e vive altrove…” L’umanità diventa foglia che vola finché resiste e poi cade per fertilizzare la terra cannibale. E la vita, irripetibile ed unica come ci è stato insegnato, non è che una parola pronunciata nel silenzio: “Noi siamo i postumi / del fallimentare / nostro essere vivi. / Sarà salvato il mondo/ dai non nati”.
Nell’ultima parte, l’autore si sofferma a contemplare le rovine che sfidano il tempo, che sono ancora lì, dopo secoli a ricordare coloro che hanno segnato il destino degli uomini, la storia. Queste tracce, mai scomparse, richiamano alla contemplazione.
E le voci, come eco ritornano dal tempo per rivivere nell’aria che ti avvolge “Aura imponderabile…” mentre la terra ingloba i corpi che riemergono come altro: “Terra e vita protesa che si regge al vento”. Il silenzio invita a parlare sottovoce per non turbare la quiete del luogo, e lo sguardo si espande e ti avvolge nella sua “levità”.
Il mondo fagocita anche chi non avrebbe voluto chiudere i suoi giorni anzitempo, non era pronto al salto: la morte è presenza senza tempo.
Il disessere, la non realtà, tema della seconda sezione della raccolta, ci trasporta in un esistere disarmonico e dissociato, in uno spazio dove “Nulla non serve a nulla” e “tutto ciò che conta si allontana dalla terra e vive altrove…” L’umanità diventa foglia che vola finché resiste e poi cade per fertilizzare la terra cannibale. E la vita, irripetibile ed unica come ci è stato insegnato, non è che una parola pronunciata nel silenzio: “Noi siamo i postumi / del fallimentare / nostro essere vivi. / Sarà salvato il mondo/ dai non nati”.
Nell’ultima parte, l’autore si sofferma a contemplare le rovine che sfidano il tempo, che sono ancora lì, dopo secoli a ricordare coloro che hanno segnato il destino degli uomini, la storia. Queste tracce, mai scomparse, richiamano alla contemplazione.
E le voci, come eco ritornano dal tempo per rivivere nell’aria che ti avvolge “Aura imponderabile…” mentre la terra ingloba i corpi che riemergono come altro: “Terra e vita protesa che si regge al vento”. Il silenzio invita a parlare sottovoce per non turbare la quiete del luogo, e lo sguardo si espande e ti avvolge nella sua “levità”.
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