Cari amici,
mi permetto di inviarvi una riflessione sulla “vicenda coronavirus”, una emergenza che mette a nudo una emergenza ben più grave, quella di avere perduto il senso del vivere e del morire.
Che questa esperienza sia – almeno per alcuni (me compreso) – l’occasione per rimettere a fuoco
la grande domanda esistenziale che si faceva Leopardi: Ed io che sono?
In caso contrario diventerà anche stavolta l’ennesima situazione in cui invece di crescere, impoveriremo ulteriormente la nostra statura umana.
Un caro saluto a tutti
Il coronavirus: che ne sarà del nostro viaggio?
Il secondo millennio aveva bisogno
di un nuovo imperatore e ha incoronato un virus.
Certo, il coronavirus incute panico e paura,
ma ciò riconferma che, pur confutando Dio,
senza idoli nessuno sopravvive!
A noi moderni piace che tutto sia sotto controllo,
presunzione che si ripropone come un inganno:
basta un nefasto invisibile per mandare tutto all’aria.
Chiuse scuole fabbriche aerostazioni e chiese,
ore di fila per saccheggiare i grandi magazzini,
barricati in casa come ci avessero internati.
Assaliti da una insicurezza esistenziale
esorcizziamo l’imprevisto, non lo si accetta
e montalianamente angosciati ci chiediamo:
che ne sarà del nostro viaggio?
Sempre più inconsapevoli della nostra finitudine
ci assale il timore di un ospite inatteso.
Non ci è più familiare la morte, va rimossa.
L’unico antidoto alla paura che ci assale
è tenere aperta la domanda leopardiana
sulla vita – Ed io che sono? – cercando
una risposta di senso al destino che ci attende.
Può esserci di aiuto, nel silenzio delle case,
riascoltare il suono delle campane
ora che le nostre chiese sono vuote.
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