sabato 21 settembre 2019

Mario Fresa. I colori di Rimbaud (e l'orrore del tempo che dobbiamo riempire)

Mario Fresa



«A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, / Io dirò, un giorno, i vostri segreti nascimenti: / A, nero mantello sul corpo di mosche rilucenti / Che ronzano intorno a orribili fetori, // Golfi d'ombra; E, bianchezze di tende e di vapori, / Lance di fieri ghiacciai, e re imbiancati, e tremori di umbelle; / I, porpora e spurgo di sangue, riso di labbra belle / nell’ira o nell’ebbrezza penitenti; // U, cicli, divine vibrazioni del verde mare, / Quiete di bestie ai campi, calma di rughe / Che l'alchimia suggella sull’ampia fronte dei sapienti; // O, Tuba suprema gonfia di stridi sconosciuti; / Silenzi squarciati da Angeli e da Mondi: / - O l'Omega, il raggio violaceo dei Suoi Occhi!» (Rimbaud, Vocali; 1871. Versione di M. F.).

Un uomo che capisca che cos’è la saggezza non può che diventare insano. Chi usi la parola nel segno dell’arte vuole agire, soprattutto, contro la monocroma mediocrità di chi si ostina a utilizzare le forme del discorso come un astuto mezzo di scambio o, peggio, come utopistico strumento “sociale”, di mutua (e ipocrita) comprensione (ma poi dico: ci conviene davvero, questo ridicolo desiderio di conoscerci fino in fondo?). Ma la parola può, deve servire a ben altro (e non solo, certo, a fingere di intendersi…): dev’essere l’inizio di un ingrandimento e di una espansione della cosiddetta realtà (e di una protesta contro di essa). Come possiamo sentirci degni d’essere vivi, se non ci trasformiamo, almeno una volta, in un Orlando furioso che tenti di uscire dal mondo (e, dunque, da sé stesso), per viaggiare oltre e per vedere oltre; e per essere altro? 




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