Marina Massenz, Né acqua per le voci, Dot.com Press 2018
recensione di AR
Il verso che intitola questa lettura è tratto da Addomesticare vipere (p. 42) poesia emblematica, ci sembra, della poetica di un’autrice attenta al particolare come correlativo oggettivo di una situazione ampia e vasta, che ci provoca e ci mette nel flusso della realtà chiedendoci di uscire dall’apatia, dall’indifferenza.
È una raccolta che in vari passaggi potremmo definire epica, questa Né acqua per le voci, per l’amore che Marina nutre per l’ambiente, per la natura e per l’umanità nelle sue ricche e molteplici manifestazioni culturali, per l’attenzione al momento epocale (ricco di perniciose contraddizioni ma anche di opportunità) che stiamo vivendo in cui il pianeta “grida” le violazioni e intere popolazioni sono private di dignità se non addirittura rese schiave e infine eliminate da interessi maligni: “le orecchie rimbombano / di scoppi, spari, cenere e fumo. / Guerrafondai. Disordine ovunque. / Neanche i guerrieri blu del deserto / proteggono i loro castelli di sabbia / e legno…” (Dal limite punto oscuro, p. 68).
Questo nostro mondo è anche fatto di storie, di miti che lo raccontano, lo interpretano, lo rendono accessibile e condivisibile, ricordando a ciascuno di noi che siamo (dovremmo essere) responsabili del nostro fratello, animali sociali per eccellenza (anche se a volte ce lo dimentichiamo): “Sto primitiva rintanata osservo / lucenti arabeschi di rami. // (…) // Raschiano i mostri con unghie pareti / prigioni, selvaggiamente spaccano // rovinando fuori; dentro il calore / del fuoco illustra la pietra di forme. / Nel riverbero i primi segni.” (Origini, p. 54); “non si accorgono di essere a testa / in giù traballanti sulle mani / come equilibristi stanchi perduta / elastica grazia e leggiadra andatura” (Qua e là sbandati sbarellati, p. 17), “Abbracciata stretta stretta / all’albero corpo corteccia / braccia alzate e poi lo scorrere / lento degli occhi alla cima. / Visioni più ampie si cercano” (Corpo corteccia, p. 28); “Il telefono suona ma la casa / non risponde. Ancora libri aperti / (…) / medicine e (appese al muro come un trofeo) / le tue ‘stroncature editoriali’, / di cui andavi amaramente fiero. / (…) / svolazzeranno per la stanza, / muti uccelli smarriti che nessuno / nel tempo saprà ricollocare, / indicando loro l’aria, l’uscita.” (Questa agendina cade in pezzi, p. 36).
La sfida di ogni poeta è quella di lottare amabilmente con la lingua, di coglierne i suoni segreti da offrire a chi desidera ascoltarli, facendoli riecheggiare nelle grotte più intime delle sue viscere. Marina Massenz ci dona parole “Come sensibili foglie / che ogni alito distoglie” (Brume di Serra, p. 60), e si stupisce con noi ammirando “la tappezzeria lussuosa del cielo, / sempre senza le parole giuste, / quelle che riconoscono.” (La concia, p. 61), o fotografando “L’intero esercito dei girasoli / sconfitto da gazze ladre e briganti” (Majella - un trittico, p. 62), o constatando che “Una luce pietosa e bassa inclina / le falesie, la roccia si fa burro e / olio per ungere i morti…” (Lo spirito e l’acqua, p. 63).
recensione di AR
Il verso che intitola questa lettura è tratto da Addomesticare vipere (p. 42) poesia emblematica, ci sembra, della poetica di un’autrice attenta al particolare come correlativo oggettivo di una situazione ampia e vasta, che ci provoca e ci mette nel flusso della realtà chiedendoci di uscire dall’apatia, dall’indifferenza.
È una raccolta che in vari passaggi potremmo definire epica, questa Né acqua per le voci, per l’amore che Marina nutre per l’ambiente, per la natura e per l’umanità nelle sue ricche e molteplici manifestazioni culturali, per l’attenzione al momento epocale (ricco di perniciose contraddizioni ma anche di opportunità) che stiamo vivendo in cui il pianeta “grida” le violazioni e intere popolazioni sono private di dignità se non addirittura rese schiave e infine eliminate da interessi maligni: “le orecchie rimbombano / di scoppi, spari, cenere e fumo. / Guerrafondai. Disordine ovunque. / Neanche i guerrieri blu del deserto / proteggono i loro castelli di sabbia / e legno…” (Dal limite punto oscuro, p. 68).
Questo nostro mondo è anche fatto di storie, di miti che lo raccontano, lo interpretano, lo rendono accessibile e condivisibile, ricordando a ciascuno di noi che siamo (dovremmo essere) responsabili del nostro fratello, animali sociali per eccellenza (anche se a volte ce lo dimentichiamo): “Sto primitiva rintanata osservo / lucenti arabeschi di rami. // (…) // Raschiano i mostri con unghie pareti / prigioni, selvaggiamente spaccano // rovinando fuori; dentro il calore / del fuoco illustra la pietra di forme. / Nel riverbero i primi segni.” (Origini, p. 54); “non si accorgono di essere a testa / in giù traballanti sulle mani / come equilibristi stanchi perduta / elastica grazia e leggiadra andatura” (Qua e là sbandati sbarellati, p. 17), “Abbracciata stretta stretta / all’albero corpo corteccia / braccia alzate e poi lo scorrere / lento degli occhi alla cima. / Visioni più ampie si cercano” (Corpo corteccia, p. 28); “Il telefono suona ma la casa / non risponde. Ancora libri aperti / (…) / medicine e (appese al muro come un trofeo) / le tue ‘stroncature editoriali’, / di cui andavi amaramente fiero. / (…) / svolazzeranno per la stanza, / muti uccelli smarriti che nessuno / nel tempo saprà ricollocare, / indicando loro l’aria, l’uscita.” (Questa agendina cade in pezzi, p. 36).
La sfida di ogni poeta è quella di lottare amabilmente con la lingua, di coglierne i suoni segreti da offrire a chi desidera ascoltarli, facendoli riecheggiare nelle grotte più intime delle sue viscere. Marina Massenz ci dona parole “Come sensibili foglie / che ogni alito distoglie” (Brume di Serra, p. 60), e si stupisce con noi ammirando “la tappezzeria lussuosa del cielo, / sempre senza le parole giuste, / quelle che riconoscono.” (La concia, p. 61), o fotografando “L’intero esercito dei girasoli / sconfitto da gazze ladre e briganti” (Majella - un trittico, p. 62), o constatando che “Una luce pietosa e bassa inclina / le falesie, la roccia si fa burro e / olio per ungere i morti…” (Lo spirito e l’acqua, p. 63).
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