SEGNALAZIONI EDITORIALI ... SEMPRE RINGRAZIANDO GLI AUTORI E GLI EDITORI CHE MI OMAGGIANO COI LORO LIBRI E LE LORO RIVISTE
MI BOLLE IL CUORE di Debora Rienzi, FaraEditore.
Nata a Padova nel 1974, Debora Rienzi ha studiato Filosofia nella sua città e Medicina a Bologna. Dal 2004 al 2017 ha svolto attività missionarie con l’Ami (Associazione Missionaria Internazionale) facendo servizio in Italia, Africa e India, poi è entrata nel monastero Camaldolese di Poppi (Arezzo). Come è anche scritto nella centrata prefazione di Alessandro Barban, e come poi risulta nella bella prefazione di Alessandro Barban, quella della Rienzi non è poesia religiosa, ma teopoetica, si tratta cioè di quello spazio interattivo teologico-spirituale di corpo, di intelligenza e di spiritualità, proveniente dall’emozionalità dell’autrice, in cui ogni componimento diventa espressione di Dio nonché affermazione della Sua e della nostra esistenza, tramite lo Stesso. Il colloquio con la divinità è, in effetti, sempre presente in questa suggestiva raccolta (che definirei una sorta di “esperienza totale”) in cui la necessità di porsi delle domande è tema costante, perché oltre che di materia, siamo anche portatori di mente e, soprattutto, di “anima”. Infatti l’originalità dell’insieme risiede, appunto, in un dialogo continuo con il Massimo Assoluto spesso rendendo, certi versi, di difficile comprensione a una prima lettura, ma poi di somma espansione, una volta terminato di assimilare il tutto. Così bisogna leggerlo e poi rileggerlo, questo libro, visto che sempre nuove porte si aprono, altre suggestioni divampano, in un crescendo di grande tensione. Scrive l’autrice: “La parola che più frequentemente ritorna nelle persone alle quali ho fatto leggere i miei versi è ‘intensità’, e certamente questo rimando esprime la forza del trasporto che sento quando scrivo. Un’altra parola che risulta presente potrebbe essere ‘unità’ in quanto scrivere poesia è, per me, un atto unificante il corpo, la mente e lo spirito, poiché mi coinvolge totalmente, dalla riflessione, ai sentimenti, alla corporeità e all’esperienza interiore di Dio. Infine potrei aggiungere semplicemente ‘desiderio’: di relazioni autentiche con Dio e con gli uomini e le donne abitati dal Suo spirito. E se qualche verso di questa raccolta risuonerà nel cuore del lettore sarà ancora una volta opera Sua”.
Nata a Padova nel 1974, Debora Rienzi ha studiato Filosofia nella sua città e Medicina a Bologna. Dal 2004 al 2017 ha svolto attività missionarie con l’Ami (Associazione Missionaria Internazionale) facendo servizio in Italia, Africa e India, poi è entrata nel monastero Camaldolese di Poppi (Arezzo). Come è anche scritto nella centrata prefazione di Alessandro Barban, e come poi risulta nella bella prefazione di Alessandro Barban, quella della Rienzi non è poesia religiosa, ma teopoetica, si tratta cioè di quello spazio interattivo teologico-spirituale di corpo, di intelligenza e di spiritualità, proveniente dall’emozionalità dell’autrice, in cui ogni componimento diventa espressione di Dio nonché affermazione della Sua e della nostra esistenza, tramite lo Stesso. Il colloquio con la divinità è, in effetti, sempre presente in questa suggestiva raccolta (che definirei una sorta di “esperienza totale”) in cui la necessità di porsi delle domande è tema costante, perché oltre che di materia, siamo anche portatori di mente e, soprattutto, di “anima”. Infatti l’originalità dell’insieme risiede, appunto, in un dialogo continuo con il Massimo Assoluto spesso rendendo, certi versi, di difficile comprensione a una prima lettura, ma poi di somma espansione, una volta terminato di assimilare il tutto. Così bisogna leggerlo e poi rileggerlo, questo libro, visto che sempre nuove porte si aprono, altre suggestioni divampano, in un crescendo di grande tensione. Scrive l’autrice: “La parola che più frequentemente ritorna nelle persone alle quali ho fatto leggere i miei versi è ‘intensità’, e certamente questo rimando esprime la forza del trasporto che sento quando scrivo. Un’altra parola che risulta presente potrebbe essere ‘unità’ in quanto scrivere poesia è, per me, un atto unificante il corpo, la mente e lo spirito, poiché mi coinvolge totalmente, dalla riflessione, ai sentimenti, alla corporeità e all’esperienza interiore di Dio. Infine potrei aggiungere semplicemente ‘desiderio’: di relazioni autentiche con Dio e con gli uomini e le donne abitati dal Suo spirito. E se qualche verso di questa raccolta risuonerà nel cuore del lettore sarà ancora una volta opera Sua”.
MINIMI VITALI di Alberto Mori, FaraEditore.
Alberto Mori è nato a Crema, nel 1962, e in quella città vive e opera. Poeta, performer e artista, ha sperimentato attività di ricerca in ambito poetico utilizzando varie interazioni fra i linguaggi espressivi. Ha partecipato a molti festival di Performing Arts ed ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Mori possiede uno sguardo sempre attento al particolare, al dettaglio in ombra, o al rumore di sottofondo, a quel brusio che diamo per scontato e che spesso priviamo di ogni significato. Quindi è in quell’universo di “tenui” percezioni, che quasi nulla lasciano, che egli trova input importanti così da dare concretezza a forme letterarie evolute e assolute, riuscendo a rendere ogni verso ricco di bagliori, infiniti sensi, continui rimandi. Questi i suoi Minimi Vitali, cioè quei sottili riverberi che ci permettono di orientarci nell’oscuro, nell’informe, nel vuoto, nell’assurdo d’accatto tipico della nostra epoca. Questi quei piccoli segni che ci consentono di misurare l’ignoto, l’inconscio, l’inespresso, l’abissale, unendo l’attuale a ciò che viene definita “rivisitazione della tradizione”. Egli dice, e io condivido: “Bisogna intendersi sul concetto di ‘nuovo’ che è stato introdotto artificialmente nel ’900 per giustificare le sorti progressive dello sviluppo tecnologico e che ha mostrato il tragico fallimento di due guerre mondiali e la successiva consegna del concetto stesso alla replicazione consumistica e alla conseguente reinvenzione dell’oggetto estetico: Pop Art. La sperimentazione ha un altro cammino, poiché lavora con i mezzi e gli strumenti della contemporaneità, ma riguarda l’accadere in ogni tempo. Infatti si sperimentava anche nella poesia e nell’arte dell’antica Grecia”. Una sua breve lirica: “Nei vetri ripuliti dallo straccio / scorrono scenari sovraimpressi”. E ancora dice: “Amo la fenomenologia del divenire di ogni cosa, ed ogni volta consegnare prospettive incompiute nei miei lavori che vengono affrontati spesso con fermo rigore concettuale iniziale per poi, via via, aprire e mutare la materia tramite i suoi linguaggi”.
Alberto Mori è nato a Crema, nel 1962, e in quella città vive e opera. Poeta, performer e artista, ha sperimentato attività di ricerca in ambito poetico utilizzando varie interazioni fra i linguaggi espressivi. Ha partecipato a molti festival di Performing Arts ed ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Mori possiede uno sguardo sempre attento al particolare, al dettaglio in ombra, o al rumore di sottofondo, a quel brusio che diamo per scontato e che spesso priviamo di ogni significato. Quindi è in quell’universo di “tenui” percezioni, che quasi nulla lasciano, che egli trova input importanti così da dare concretezza a forme letterarie evolute e assolute, riuscendo a rendere ogni verso ricco di bagliori, infiniti sensi, continui rimandi. Questi i suoi Minimi Vitali, cioè quei sottili riverberi che ci permettono di orientarci nell’oscuro, nell’informe, nel vuoto, nell’assurdo d’accatto tipico della nostra epoca. Questi quei piccoli segni che ci consentono di misurare l’ignoto, l’inconscio, l’inespresso, l’abissale, unendo l’attuale a ciò che viene definita “rivisitazione della tradizione”. Egli dice, e io condivido: “Bisogna intendersi sul concetto di ‘nuovo’ che è stato introdotto artificialmente nel ’900 per giustificare le sorti progressive dello sviluppo tecnologico e che ha mostrato il tragico fallimento di due guerre mondiali e la successiva consegna del concetto stesso alla replicazione consumistica e alla conseguente reinvenzione dell’oggetto estetico: Pop Art. La sperimentazione ha un altro cammino, poiché lavora con i mezzi e gli strumenti della contemporaneità, ma riguarda l’accadere in ogni tempo. Infatti si sperimentava anche nella poesia e nell’arte dell’antica Grecia”. Una sua breve lirica: “Nei vetri ripuliti dallo straccio / scorrono scenari sovraimpressi”. E ancora dice: “Amo la fenomenologia del divenire di ogni cosa, ed ogni volta consegnare prospettive incompiute nei miei lavori che vengono affrontati spesso con fermo rigore concettuale iniziale per poi, via via, aprire e mutare la materia tramite i suoi linguaggi”.
SCORDARE IL COPIONE di Alessandro Zaffini, FaraEditore.
Alessandro Zaffini è nato nel 1988 a Sassocorvaro, nel Montefeltro. Dottore in Lettere Moderne all’Università di Urbino, è scrittore di testi per la band Giumara & the PinkNoise. Ha pubblicato una silloge di poesie nel 2013, “Le api marce”, sa disegnare, suonare la chitarra e cantare. Ecco alcuni suoi versi: “Non poter sentire niente / nulla pensare nell’intrico / dei rami, davanti al vorticare / di galassia di quei fumi / Urbino semplicemente / svetta”. Scordare il copione è, a tutti gli effetti, un poema. L’autore apre il sipario di questa raccolta richiamando alla mente del lettore un copione teatrale: “Il Don Giovanni / Il convitato di pietra”, opera attribuita allo scrittore spagnolo Tirso de Molina, inserita in quel “siglo de oro”, cioè il XVI, che mosse dalla Spagna i fermenti ripresi da altri grandi autori europei nei decenni a venire. La moralità che combatte contro le passioni della carne è ciò che muove Zaffini negli otto atti che compongono questo insieme. La tensione narrante produce la forza costante di questo monologo in versi e conduce il lettore nella scia incandescente che anima il copione voluto dall’autore e riscattato dalle mani del destino che si affaccia, costante, nei sogni, nelle notti insonni, nelle membra martoriate dai desideri. Parimenti, il fantasma della morte, onnipresente nell’esistenza di ogni essere umano, viene vinto per un istante tramite i doni che gli Dei affidano al poeta, affinché attraverso le sue composizioni l’umanità intera trovi l’energia del rinnovamento nella natura che infine dà e toglie la vita. Le similitudini con la figura del Gesù Cristo dei Vangeli si snoda in tutta la rappresentazione. Le scene prendono spunto dall’attualità, dal mondo che si evolve intorno a noi con i suoi “diabolici” paradigmi ai quali il regista-attore Zaffini si concede oppure dei quali si libera, nell’attesa di un possibile trionfo nella resurrezione dello spirito. In questo mare brilla per intensità poetica l’atto che reca il titolo “Euridice”, scritto tra l’ottobre del 2012 e il luglio 2013, nel quale la delicatezza dei versi, disposti alla rima interna e all’anafora, ci indicano l’eterna sostanza di ciò che definiamo speranza. Opera indubbiamente particolare, questa di Alessandro Zaffini, per la realizzazione della quale l’autore ha raccolto, tra reale e finzione, sofferenza e qualche gioia, una parte importante della sua/nostra storia.
Alessandro Zaffini è nato nel 1988 a Sassocorvaro, nel Montefeltro. Dottore in Lettere Moderne all’Università di Urbino, è scrittore di testi per la band Giumara & the PinkNoise. Ha pubblicato una silloge di poesie nel 2013, “Le api marce”, sa disegnare, suonare la chitarra e cantare. Ecco alcuni suoi versi: “Non poter sentire niente / nulla pensare nell’intrico / dei rami, davanti al vorticare / di galassia di quei fumi / Urbino semplicemente / svetta”. Scordare il copione è, a tutti gli effetti, un poema. L’autore apre il sipario di questa raccolta richiamando alla mente del lettore un copione teatrale: “Il Don Giovanni / Il convitato di pietra”, opera attribuita allo scrittore spagnolo Tirso de Molina, inserita in quel “siglo de oro”, cioè il XVI, che mosse dalla Spagna i fermenti ripresi da altri grandi autori europei nei decenni a venire. La moralità che combatte contro le passioni della carne è ciò che muove Zaffini negli otto atti che compongono questo insieme. La tensione narrante produce la forza costante di questo monologo in versi e conduce il lettore nella scia incandescente che anima il copione voluto dall’autore e riscattato dalle mani del destino che si affaccia, costante, nei sogni, nelle notti insonni, nelle membra martoriate dai desideri. Parimenti, il fantasma della morte, onnipresente nell’esistenza di ogni essere umano, viene vinto per un istante tramite i doni che gli Dei affidano al poeta, affinché attraverso le sue composizioni l’umanità intera trovi l’energia del rinnovamento nella natura che infine dà e toglie la vita. Le similitudini con la figura del Gesù Cristo dei Vangeli si snoda in tutta la rappresentazione. Le scene prendono spunto dall’attualità, dal mondo che si evolve intorno a noi con i suoi “diabolici” paradigmi ai quali il regista-attore Zaffini si concede oppure dei quali si libera, nell’attesa di un possibile trionfo nella resurrezione dello spirito. In questo mare brilla per intensità poetica l’atto che reca il titolo “Euridice”, scritto tra l’ottobre del 2012 e il luglio 2013, nel quale la delicatezza dei versi, disposti alla rima interna e all’anafora, ci indicano l’eterna sostanza di ciò che definiamo speranza. Opera indubbiamente particolare, questa di Alessandro Zaffini, per la realizzazione della quale l’autore ha raccolto, tra reale e finzione, sofferenza e qualche gioia, una parte importante della sua/nostra storia.
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