Sul libro di Vincenzo D’Alessio Dopo l’inverno e altre poesie (Fara 2017)
Torno
di nuovo entusiasta dal recente incontro di Fonte Avellana con bei ricordi e
con nuovi libri importanti, tra i quali Dopo l’inverno e altre poesie di Vincenzo D’Alessio (Fara Editore, dicembre
2017). È mia consuetudine cercare bellezza in un volume
sin dal suo essere “oggetto libro”. Con Fara vado sul sicuro, ne trovo conferma
anche in questa recente opera di D’Alessio. La prima di copertina e la quarta
riportano un dipinto di Eliana Petrizzi che ritrae l’Autore con in mano
qualcosa di enigmatico, al contempo punto interrogativo, psichedelica immagine
floreale, scettro o esile bastone di chi è in cammino; al di sopra dell’altra
mano appare un aleggiante globulo rosa di segni, di caratteri alfabetici,
numerici e altro. A mio parere, una perfetta introduzione all’intera Opera di
Vincenzo D’Alessio.
Dopo l’inverno e altre poesie è diviso in tre sezioni: Dopo l’inverno, Un caso del
Sud, Costa di Amalfi. C’è una
grande distanza temporale tra le tre composizioni: la prima edizione di Un caso del Sud risale al 1976, mentre Costa di Amalfi è del 1995.
Probabilmente Dopo l’inverno è stata
scritta recentemente. Lo scarto temporale non è comunque distanza tematica e
poetica, perché la caratterizzazione di questo libro imprime ogni sua parte di
qualità comuni. Quella di D’Alessio è, in alcuni suoi aspetti sostanziali, una
poesia civile che, nella sezione Dopo
l’inverno, giunge sino all’invettiva,
come in questi versi: gli dèi umani hanno
prosciugato / il cibo, ridono malvagi / del sangue innocente senza fine.
Oppure qui: Ho visto incedere / nelle
loro casacche / tronfi i servi dello Stato. Una poesia, inoltre, dolente,
che sfiora a tratti l’amarezza: Ho
desiderato questo amore / ché durasse oltre la morte / (…) l’ha colpito un maleficio / ed io non so, se
è stato amore.
L’impeto lirico, gli umori d’una natura
mediterranea impregnata di sole, di luce e profumi, l’anelito mitologico, la
nostalgia di esistere, quasi in una pulsione parmenidea, giungono sempre tra i
versi di D’Alessio come soffio salvifico: Ho
con me un bel portafortuna / il tuo sorriso a spicchi / come agrumi intrisi di
sole.
Ritroviamo la poesia civile nei versi
giovanili di Un caso del Sud, in un
frammento intitolato Emigrazione, da
me consigliato particolarmente a coloro che dimenticano il recente passato e ignorano
l’essenza errante e nomade della specie umana: Questo paese / amara ragione, / rivela cantieri / e concerie: volti
allegri. / Ogni stagione / ritornano i giovani / sempre stranieri. In
questa sezione leggiamo un verso (dopo il
sole della bella estate), in un echeggiare dell’opera di Pavese, che
ritorna quasi integralmente (Il sole
della bella estate) nelle prime pagine come verso introduttivo dell’intera
raccolta. Sento in tale gesto una sorta di fedeltà, a distanza di oltre
quarant’anni, a sé stesso, al proprio atto creativo. Perché tutta l’Opera di D’Alessio
mi appare come fedeltà alla terra, fedeltà alla vita, similmente all’invito
fondamentale che Nietzsche faceva pronunciare al suo Zarathustra.
Nella sezione finale, Costa di Amalfi, le prime poesie sono riportate in un elegantissimo
corsivo, quello della calligrafia “d’una volta”, come in un trasferimento integrale,
in altri fogli pubblici, delle migliori paginette scritte del nostro amato
quaderno. Mi ha inizialmente colpito questa apparente bizzarria. Poi,
d’improvviso, è giunto alla mente il ricordo d’uno dei libri che nei miei
vent’anni mi hanno profondamente commosso: il Diario di Nijinsky, il meraviglioso ballerino russo. Egli voleva
inconcepibilmente pubblicare quel suo scritto con i suoi stessi fogli, con la
sua stessa scrittura a penna, perché in tale scrittura, in quei fogli, c’era il
respiro dell’autore, la mano che trema dall’emozione, la lacrima che bagna la
carta. Chiunque abbia la fortuna di ricevere ancora lettere di carta da una
persona cara, sa di cosa si tratta. Vincenzo D’Alessio in Dopo l’inverno e altre poesie ha forse cercato anche questa
ulteriore alchimia.
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