venerdì 20 luglio 2018

Bonvecchi, Doka e Mastromauro vincono il Faraexcelsior 2018!

Fara Editore e i giurati del concorso Faraexcelsior 2018 sezione Poesia (Antonella Jacoli, Bruna Cicala, Carmine De Falco, Germana Duca, Massimiliano Bardotti, Salvatore Ritrovato) sono lieti di proclamare i vincitori. Ecco la classifica e i giudizi di merito: grazie di cuore alla giura per l’attento e competente ed empatico lavoro di valutazione e complimenti ai vincitori!
Per la sezione Narrativa/saggio v. narrabilando 


Vincitori con pubblicazione premio gratuita

I. classificato

Le odorose impronte 
di Matteo Bonvecchi (Montecassiano, MC)




Matteo Bonvecchi (Macerata, 1977), una laurea in Teologia, dal 2001 insegna Religione nelle scuole pubbliche italiane e dal 2009 al Liceo Classico di Macerata. Ha firmato per il settimanale Emmaus inserti artistici e fotografici. Non ha mai pubblicato poesie o partecipato a concorsi letterari. Sposato, con due figli, vive a Montecassiano.



Le odorose impronte

Trahe nos, post te curremus
in odorem unguentorum tuorum (Cantico 1,4)


Cum tacet nox

“…mentre la notte tace.”
(Catulli Veronensis liber, 7)


I.

Sera
e la segreta trasparenza
dei suoi monti,
rosa e riflessi malva
a perdersi sul greto
dei vicoli, tra piagge
sommessamente gorgoglianti
raccoglie la piccola città
case come opachi cristalli
sul colle e perle sfoggia
nel turchino dicembre
a una a una le sue stelle…

poi il silenzio
e tutto e non altro
è il miracolo di luce
di quegl’occhi, l’oro-brace
dei tuoi capelli:

ancora
nell’insidiosa
oscurità ch’avanza
a salvarmi

una tua
            Apparizione



II.

Tempi anticipando irrompe
la ventosa primavera arriva
fin sulla soglia improvvisando
in tutti i suoi profumi
mulinelli
                        poi m’investe
come quel tiglio in attesa
e rinvengo il ricordo di te
nella nube grigioazzurra
nella voce del prato a questa pietra

            solo il pensiero
            che con te le ore hanno
            il fascino dei millenni
            permette al tempo la sua pace
                                                      e a me

                            ancora di sopportarmi



III.

… Oi lasso, lo meo core,

che ’n tante pene è miso

che vive quando more

per bene amare…




e ancora cantate amici poeti

la verità delle cose

l’incendio che cova

dal ventre della materia

certi soltanto

di poter cominciare

là dove – crux verbi

la parola muore…



è così che suona il tuo appassionato

e acuto invito ad ogni mia citazione.




IV.


Come per una delle tue magiche

fiabe il mare tutto il suo profumo

e ovunque tremuli bagliori verdi e stelle

stelle e nubi terse di rugiada lunare

danzano nell’incanto d’altre realtà



anch’io

sulla loggetta viola

in prospettiva del tutto speciale

ogni mattina rinasco

dall’abisso di freschezza

della tua ilarità

V.

Poi attenti ascolteremo i nostri poeti
danzare nell’estasi serena
del tramonto o nell’effluvio
dolcissimo della luna e del suo veleggiare
nelle notti di maggio, semplici astanti.

Quei versi e quei fecondi silenzi
basteranno fieramente ad abbattere
le vane apparenze le superbe
promesse puntualmente fallite
pur se quel fuoco dovesse
consumarci e noi
morirne di sete.

Solo sarò contento
di poter coltivare
in un piccolo orto
sogni essenziali,
di poter ancora assaggiare
la tua torta di mele,
                        e specialmente
del difficile e necessario
                                   miracolo

di lasciarmi amare.



«Si sente, purissimo, l’odore della memoria, e questa attenzione importante a chi è già stato, a chi ha già camminato, tracciando una strada, lasciando le impronte utili, per essere seguiti. Santi, padri, maestri. Tutti hanno tracciato un sentiero, un destino, una via. E qui c’è un accorato ringraziare, attraverso versi di fulgida bellezza. C’è un ricordare che è un tenere in vita e aggiungere vita. Ci sono i luoghi, meta di pellegrinaggi. Luoghi d’incontro con la bellezza, col sacro; con sé stessi. Luoghi dove si ritrova qualcosa e si reimpara qualcosa. C'è l’eco di altri poeti, che chiamano e incantano. C'è una vita che viene svelata e una che resta nascosta, perché c'è un mistero che forse è bene che rimanga tale. Ci sono musiche soavi, leggiadre, e un ritmo poetico che dà la misura del tempo. Ma c'è anche un passato che guarda al futuro e ne fa un altrove abitato: Le sezioni dedicate alla nascita dei figli che trovo essere, è mia personale opinione, dei gioielli, piccoli capolavori di forma e contenuto. Si respira, dentro ogni verso, una spiritualità che m’ha scaldato il cuore… Ho amato moltissimo certi richiami e citazioni. Un lavoro accurato sul verso e sulla sua musicalità. È stato un privilegio poterlo leggere…» (Massimiliano Bardotti)

«Fra riferimenti classici e biblici, il lettore è guidato lungo un itinerario geografico e spirituale che, pur essendo appartato, è pieno di luci, visioni, memorie, attese. Lessico ed intonazione elevata talvolta aggiungono peso all’essenza del dettato lirico.” (Germana Duca)

«Ho apprezzato l'intreccio di citazioni e allusioni in un registro che sa alzarsi e abbassarsi, da lirico all'epico, senza snervare il verso che si irrobustisce di un'esperienza attentamente filtrata dalla letteratura. Mi pare a volte di sentire le movenze del primo Zanzotto.» (Salvatore Ritrovato)



II class. ex aequo

Dimentica chi sono 
di Griselda Doka (Villapiana, CS)



Griselda Doka è nata nel 1984 a Tërpan Berat (Albania). È Dottore di ricerca in Studi letterari, linguistici, filologici e traduttologici presso l
Università degli Studi della Calabria. I suoi interessi scientifici si basano sulla lingua e la letteratura albanese, sulle scienze traduttologiche e sulla letteratura della migrazione. Attiva come operatrice culturale, organizza eventi sul territorio ed è membro di varie giurie letterarie. L’unica e instacabile utopia è la poesia che accompagna i suoi giorni. Oltre alla sua lingua madre, scrive anche in italiano. La sue pubblicazioni in poesia sono: Soglie e Solo brevi domande esiliate (Fara Editore) 2015. Pubblica per diverse riviste e blog. Per Solo brevi domande esiliate (Fara Editore) 2015 ha vinto il premio della critica al Poem Award Academy, Napoli 2016. Vive e lavora in Calabria nell’ambito dell’Istruzione e dell’accoglienza ai migranti.




Parte I 
 
Dove il fiume muore nel mare e le acque sono sale 
 

Dimentica chi sono
dimentica chi sei
tu, mia costante evasione
che percorri il mio Sud, tortuoso
cercami 
nei campi di zagara bianca
colmi di nettare pregnante
che ti scorre nelle vene
quando l’odore del mio sesso
è la sinfonia che ti accoglie
 

E poi mi sorprendo ancora 
di quel pezzo di terra 
con l'erba sfumata di ocra 
che si agita nella notte
appassita più dal proprio peso
che dal brusio circostante
 
Intorno al tendone del circo 
cani in calore
La donna elettrica è tutta per voi
incredibile ma vero unica al mondo
una coppia di zingari discute
al vento
chissà quale antico arcano
mi duole ammettere
che tu ancora scuoti 
la mia ragione
oltre ogni limite
e non te lo direi
mai te lo direi
questa volta lascio 
che la notte si animi da sola
silenziosa sotto la mia pelle
per poi incrinarsi lentamente 
insieme ai cappelli dei clown
ai baci degli zingari
e al tiepido guaito dei cani 
Isprăvi, Isprăvi[1]
un richiamo
dal retrogusto 
di polvere
e di erba matura
inascoltato si dissolve 
 


Se la mia parola ti giunge inaspettata
insolente, piena e rovente
una foglia d’ortica
che sfiora la pelle lesionata
flagello
la parola
travolge
oltraggia
spiazza
il tuo silenzio
il tuo ricovero
vuoto
manchi di fede
manchi di odio
quando la parola ti giunge
inaspettata
vera
vera
vera
erranza ardente
che scioglie il sole
in gola


Grido
ricamo sospiri
mastico a fatica
la mia storia
che non diventa cronaca
solo ebbrezza
del tuo sforzo nel definirmi
con te, si chiude il mio ciclo
prima che inizi
ansimo
inseguo il vento
mesto delirio il tuo che non giunge
eppure questi versi sono stati scritti per te
e hanno senso solo se non li leggi
solo allora potrei confessare
la mia insaziabilità
quando di nascosto
divoravo il serpente sotto la pietra
il corvo solitario
la pecora smarrita
e persino mia figlia prima che nascesse
ho compiuto tutto ciò che offre il creato
(oquelchesia)
per i puri e gli impuri
lascio lo sperma
ornamento sul grembo
e cerco ancora delle sorelle
oh sì, loro sì, che mi dovrebbero leggere
le mie sor in L e in Astre
sparse e rinnegate dove sono?



[1]Dal bosniaco: finito, finito.



«Appassionata, a tratti dura (la parola è “flagello”) e aspra poesia di sofferenza fisica e morale, grido di dolore lungo che a tratti e d’improvviso si fa anche struggente richiesta e amore riconosciuto nel disincanto, dal quale bere altra vita. L’intensità dei versi è molto spesso assoluta. Begli esiti sono tra gli altri l'ammissione “A volte ho bisogno di lacrime celesti” e l'esperienza di Dio dal basso del naufragio esistenziale, quando scocca la promessa che sulla terra “saremo fratelli per davvero”.» (Antonella Jacoli)

Dura disamina sugli errori intrisa di rabbia, senza ricercare attenuanti o colpevoli complici, in cui si coglie tutta l’urgenza narrativa. Eppure l’amore affiora nei passaggi poetici di un amore dato a piene mani, vissuto al culmine, gridato e sussurrato. Una lettura intensa dalla quale si esce dopo essersi analizzati, puniti, redenti. (Bruna Cicala)

Questa raccolta mi è piaciuta per la sua apparente trasandatezza, che in verità traduce una accurata sospensione della letteratura, come se cercasse la voce di un Prévert, lirica e nervosa, capace di lanciare abbaglianti sprazzi e subito dopo di chiudersi in un corrivo e introverso silenzio. (Salvatore Ritrovato)



Cronache sparse 

di Marco Mastromauro (Novara)





Marco Mastromauro, vive a Novara, lavora a Vercelli. Laureato in Giurisprudenza, da anni si dedica alla poesia. Ha pubblicato poesie sulla rivista «Alla Bottega» e, dal 1995 al 1999, ha collaborato al trimestrale di cultura e arte «Contro Corrente». È autore delle raccolte: Anime confinate (Milano Libri 1992), Cuba (Ibiskos 1995), Memorie da un pianeta (Contro Corrente 1997), Eros, Trinidad e altre poesie (Oppure 2000), Fraintendimenti (ebook, Prospero editore 2013, ampliato in versione cartacea sempre con Prospero nel 2017). È stato premiato e/o segnalato in alcuni concorsi letterari. Brevi sillogi di sue liriche sono presenti in alcune antologie, come Siamo tutti un po’ matti (Fara 2014) e Rapida.mente (Fara 2015). È appassionato lettore di racconti, storie, romanzi e poesie. Per lui sono molte le poesie ineliminabili, in particolare quelle che preferisce sono di Celan, Trakl, Antonia Pozzi e, soprattutto, di Willem Van Toorn.



Il mondo degli altri

Dentro i suoi pensieri immagini sfocate. 
Noi stiamo attorno al dotto maestro
e in coro pronunciamo parole imparate
dal correttore di maldestre grafie.
I nostri gesti, gli sguardi
in chiaroscuro, lo inducono
al sorriso, a quel compatimento custodito
con cura e che ora si fa polvere
tra i figli e le nuore senza nome
nel mondo segreto degli altri,
dei distanti.


La promessa dell’alba

La promessa dell’alba
è un cedro oltre il colonnato dei cipressi
un cenno del capo
che scalfisce il gelo invernale
mentre ti inoltri nei recessi del parco cittadino
tra nubi viaggianti.

Che siano osannati la promessa
e il coro dell’arpa contagioso
che s’aprano un varco tra i rami e
le siepi imponenti
che il vuoto sia un asilo
un angolo di tepore
una fortuna
un volo mattutino.


Ancora Etty Hillesum

Dove ti celi
rasenti  gli sguardi.

Dove le anime stanno sommerse
ecco nere ruote in perenne partenza:
corrono, balzando e stridendo,
verso l’immenso follia.

Tu soltanto ripeti: “Resta, riposa in te stesso”.

In te l’assenza d’ogni ombra
la sfolgorante bellezza.




Davanti alle magnifiche onde


Davanti alle magnifiche onde
ai bordi di schiuma
alle screziature delle nuvole che
si dissolvono in bianchi chiarori,
davanti a questo esilio sconfinato
di corpi e di attraversamenti,
davanti a lei che distesa soffia in alto
l’anima minuta, da sé l’allontana,
dalla memoria dei giorni,
dalla vergogna della pena:

l’ignoto ovunque smisurato
è mare imponente
che oscilla nello sguardo
-->
da polvere offuscato.



«È la carezza dolce amara dei ricordi incastonata con sapienza nel trascorrere del tempo senza cadere nella malinconia, con la consapevolezza che altri orizzonti si aprono dopo quello che credevi fosse l’ultimo: Poco ci si svela dentro questo teatro autunnale, / com’eravamo e come diventeremo /confondendoci con le ore, i giorni, / le indistinte stagioni. / Perché l’inverno non è ancora. La ricchezza delle continue metafore e la musicalità dei versi, uniti a un linguaggio pulito e mai scontato di squisita poesia, fanno assaporare colori, profumi e sensazioni nei quali ogni lettore può ritrovarsi e immergersi.» (Bruna Cicala)

«Il distacco del maestro, l'esodo come metafora del vivere, i ricordi familiari, il coraggio di Etty Hillesum, il ponte simbolo di collegamento tra il niente e il noi che “tentiamo nomi”, ponte che “sta sospeso, ancora / sdoppiato dall'acqua, / sostegno dei passanti”, sono alcuni degli episodi che disegnano una poetica sobria, quasi trattenuta, ma capace di dire sensibilmente, come le due ultime strofe di Ancora, poesia del distante e del vicinissimo alle nostre domande di uomini braccati.» (Antonella Jacoli)



La raccolta esprime fin dal titolo una presa di distanza dalla poesia-poesia. L’assenza di rime e di semplicità nell’ispirazione rendono la lettura talvolta discontinua. (Germana Duca)






Altre opere votate

Elegie dell’istrice di Gabriella Bianchi (Perugia)

Gabriella Bianchi è nata e vive a Perugia, dove ha lavorato come aiuto bibliotecaria. Ha pubblicato sette libri di versi: L’etrusca prigioniera, Canzoniere, Giardino d’inverno, Cartoline da Itaca (vincitore nel 2005 del premio per inediti umbri), Il paradiso degli esuli, Il cielo di Itaca e Quaderno di frontiera (premio Faraexcelsior 2014). Notturno (Fara 2017, opera votata dal concorso Faraexcelsior). Ha vinto alcuni primi premi ed è presente in varie antologie nazionali. Alcune sue composizioni sono state apprezzate da Maurizio Cucchi, Valerio Magrelli e Davide Rondoni. Sulla sua poesia così si è espresso Mario Luzi: “Le sue poesie le ho trovate buone, un dettato fine e vibrante. Alcune sono vere e proprie riuscite.”



ALL’ISTRICE

Selvatica scorbutica silvestre
solare spinosa
spaurita dalla morsa del traffico
singolare creatura dall’animo
schietto
fiuti il bosco con il radar
di vibrisse erette

ti ergi in difesa del male
con la tua faretra di frecce
ignara del mondo che scivola
nella spirale atomica

semplice e sincera presenza
primordiale
appena uscita dall’arca
sbigottita dal fragore degli umani

il tuo mondo è una bolla di sapone
schiva e serena abitante di selve
sempre più strette
dalla scure dell’uomo.



ALBERI
  
Non temi la notte
che umida preme
sulla tua scorza nuda
con tutto il suo peso d’ombre,
albero,
fratello mio maggiore
che dormi
sotto la lampada lunare
senza alcuna paura
e dai la buonanotte
alle creature
che si rifugiano in te
mormorando ninne nanne
con il fruscio lieve delle foglie.
E con la tua canzone
anch’io scivolo nel sonno
fingendomi capinera.


LUNA PARK

Stordisce anche il cuore
risalire l’autunno
dai pendii brulli
assediati dalla nebbia folta
senza graffi di falchi nel cielo

portando  con sé
uno zaino di ricordi fuori fuoco

in cerca del luna park luminoso
con il desiderio antico di salire
sulla grande ruota
e vedere il mondo con la vertigine addosso

(la testa in cielo
sfiorata dal fiato degli angeli)

unico biglietto d’ingresso
per tornare nel sacro territorio
lontano migliaia di spanne

i piedi nudi nell’erba
una palla colorata in mano
gli occhi limpidi colmi
della luce chiara dell’infanzia.


«Poesia di appartenenza ai luoghi delle radici e della odierna quotidianità in terra umbra, incardinata al cosmo, nel bene e nel male. Fra presenze angelicate e animali araldici – come l’istrice del titolo, in cui forse si adombra chi scrive, e l’orsa dell’indimenticabile ritratto materno – il tono elegiaco diviene strumento di verità, anche scomode. Il nitore espressivo, in accordo col variare dei tempi e delle “pedagogie”, conferisce unità e bellezza all’intera raccolta.» (Germana Duca)

«Raccolta matura, asciutta, ispirata a un naturalismo che non diventa mai di maniera, anzi raggiunge un dolce intimità con le immagini, guidata da un sobrio e leggero tocco.» (Salvatore Ritrovato)

«Interessante e coinvolgente immersione nelle simbologie della natura e degli stati d’animo. Versi che scorrono delicatamente sul rincorrersi delle stagioni, delle albe e dei tramonti, con metafore efficaci e versi musicali.» (Bruna Cicala)





La forma incauta 
di Alberto Trentin (Breda di Piave, TV)

Alberto Trentin è nato a Treviso nel 1979. Laureato in Filosofia a Ca’ Foscari(tesi: Infiniti spazi, infinite scene; studio sull’impresa e la teatralità bruniana) e un dottorato in filosofia del Rinascimento (tesi: La (s)cena delle ceneri), ha conseguito un master triennale in pedagogia clinica (tesi: L’incanto e la magia. La pedagogia clinica e il soggetto). Ha organizzato la kermesse culturale “Treviso allo specchio” nel 2009 e nel 2015 ha collaborato con l’associazione Nina Vola per il festival Carta Carbone; dal 2017 è presidente dell’Associazione Nina Vola. Ha scritto testi teatrali portati in scena a Treviso e provincia. Poesia: La voce dei padri (Samuele Editore 2010) e Vuoti d’ossa (Arcipelago Itaca 2017), curato una raccolta di saggi sulla globalizzazione (Istresco 2010), con uno personale sulla retorica digitale. Ha pubblicato su riviste internazionali di poesia (Soglie, NeMLA, Gradiva, Italian Poetry Review) e su antologie collettanee (Samuele Editore, Poesia e rivoluzione, Fara Editore), nonché su riviste di critica con alcuni saggi di letteratura contemporanea su Dino Buzzati, Ezra Pound, Bartolo Cattafi. Cura con Chiara Stival la rassegna di incontri con l’autore Lib(r)eriamoci. Interessato all’archeologia della parola, “quella cosa che ti permette di risalire alle origini, al luogo dove le cose hanno preso ad essere quello che sono, indipendentemente da quanto in seguito è successo, favorendone la dimenticanza, il mutamento, il rovesciamento”.

A PRIMAVERA, ARGO E GLI ALTRI

L’ultimo sofisma
al cuore della mia età
è uno spaesato fantasma
che gagnola per stanze oscure
come mera deiezione di dio.

Agli aurispici su queste deiette paure
non restava che trasalire
come se il tutto degli occhi
fosse il luogo comune del male.

Tendiamo a scordare col pianto
nel solco di tutte le gocce
cadute come primissimi denti
tracce di memorie appena evocate
taciute a quegli occhi incoscienti
perfino di averle perdute.

Nel paese in cui vieni
tutto ti è poco familiare:
l’aria arriva a stordire, portando l’odore
di una zuffa lontana, uno sfizio d’eroi
in gara a farsi morire
per poi ripassare la linea dei Lari
e darsi la pace con gli occhi.
Per questo mi guardi
come fanno certe persone
passate quando tornano a casa?


Parla una donna

Voi siete ancora al colmo
del paese dove l’aria sa di brace,
di olocausto, di corpo mortale esausto
dell’urticanza di una processionaria.
Di quale natura vuoi chiedere conto
in una tale sciocca stagione?

Un piede via l’altro camminiamo
lontani, benché la tua invocazione
sia il mio male peggiore
nello scuro silenzio che siamo.

Da sempre so di te quell’altro odore
di spossata fede nel mio disamore.

Non solo. Tu ami essere guardata di lato
da chi finge di essere cieco,
di andare tra le tende a tentoni
che fanno scure le buie nottate.

Sì. È il mio ultimo altare
Sul quale consuma
il tempo un ingoio ingordo
che all’estate lascia come dote
uno sbieco ricordo dei nostri sfaceli.

Qualcuno accolga con un sorriso
saturo di lunghe sere
l’estraneo di casa. Annotta.
Nel sonno tu vegli.
Nel sonno io veglio.
Abbiamo inteso nel giorno la trama
l’imbroglio che ci è consustanziale
e che procede tra la polvere.
Assolvere, da dentro hanno detto,
incapaci per primi di sostenere l’enigma,
quell’avvento che da allora
riaccade e ci lascia la lettera et cetera.


«Nell’unità di stile e nella morbidezza d'accenti si consuma il sentimento moderno della sospensione del sentire, qui espressa in una forma classica. Parentesi quadra dà prova di questo sfumato che è ritmo dolce a fior di pelle, e anche l'inizio trovo sia davvero riuscito: “Ho cominciato a scordare il nome / che una volta distingueva le strade”. E se “l’isola felice non esiste”, è calda e avvolgente nostalgia il prendere commiato da tutto e sentire la mancanza del “tuo dirmi / che faceva sera”.» (Antonella Jacoli)

«L’autore si fa riconoscere per un verseggiare sapiente che si attesta nel solco della tradizione linguistico-poetica classica senza mai cambiarla, ma con maestria e capacità di descrizione. Una poesia in prima persona e in dialogo con un tu amoroso, pretesto per attraversare temi alti dell'esistere, la ricerca del senso del proprio essere nel mondo, dove qua e là irrompe improvviso e inaspettato il quotidiano del vivere contemporaneo, che viene subito costretto a fuggire in punta di piedi. L’autore convince soprattutto quando rompe con topos e classici, come quando descrive il “suo” ponte di Rialto, rovesciando l’immagine cartolina del carnevale di Venezia con grottesca atrocità
Ora anche a Rialto il cielo discorda
e mostra ogni sangue, ogni morto
l’acqua atroce di porto
che sale addosso e zaffa, nera, sorda
all’ultima eco del sacrificio carnale
menzogna di ogni carnevale.

In definitiva, una voce equilibrata e attenta piena di echi che rimandano alla tradizione tardo ottocentesca e inizio novecentesca, che si distingue per la capacità di costruire finali arguti e immagini potenti, ma che come il poeta stesso sembra ammettere, risulta sfinita nel suo dirsi e nel suo tentativo di farsi immagine d’amore.
La lingua materna mi ha fatto sfinire
ogni parola calcando nelle righe
le varie finte all’amore 
» (Carmine De Falco)




Elleboro di Guglielmo Aprile (Verona)

Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive e lavora a Verona. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali “Il dio che vaga col vento” (Puntoacapo Editrice), “Nessun mattino sarà mai l’ultimo” (Zone), “L’assedio di Famagosta” (Lietocolle), “Calypso” (Oedipus); per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.

Strada per Alamut 


Non ti fermare dai contrabbandieri di datteri,
nel pozzo trovi sabbia
anche se hai sete,
la locusta è divorata appena consumato l’amplesso,
crampi allo stomaco e piatti sporchi
dopo che i convitati vanno via,

un gusto acido al palato
segue il morso alla melagrana;
gli ambulanti è da ormai una settimana
che hanno sbaraccato, un ricordo
di catrame secco e gomma bruciata
al posto delle loro bancarelle
di bengala e perline colorate.
Ci raccomandarono state alla larga
dai cunicoli, dal bordo dei pozzi,
ci si perde spesso
dove gli animali senza occhi
fanno le tane, nessuno li ha mai misurati
i sotterranei, una razza diversa
che ha in orrore i fiori di Cnosso
coltiva insani, violenti appetiti.

Il cielo dalle mascelle di ferro
reclama ogni giorno
il suo tributo di cappellini da baseball,
in numero non inferiore a sette.

Nell’area delle vecchie concerie
a una certa ora si alza
una nebbia che spaventa gli uccelli;

cera nelle orecchie
appena i salici iniziano a salmodiare,
c’è una pianta che emette
un suono capace di uccidere, gorghi e secche
sotto il fogliame in apparenza calmo:
non guardare
dopo le sei dietro le cancellate
o dimenticherai il tuo nome,
passa oltre
quando una strana nenia ipnotica
culla l’aria e sussurra
che basta poco ad essere felice.


Guai a fidarsi della voce guida
accattivante del navigatore:
la destinazione era a trenta metri
sulla destra, ma è solo una discarica;

il mandorlo ruota con molle grazia
nella sera scarlatta di giugno
i suoi polsi da baiadera:
ma tu passa oltre,

quello che da lontano riverbera
si scopre, a pochi passi,
bosco e medusa, abbraccio di tentacoli
e bocca di dionea, una volta entrati

nella grotta non si torna più indietro.

«Una raccolta matura e densa, capace di restituire in maniera vivida le tante storie che racconta, le cronache di viaggio e le scene di curiosa vita quotidiana. L’autore d’altro canto non si abbandona a facili “vitalismi” e il suo dire è a tratti pervaso da un tono amaro e rassegnato, da cui il nostro evade alla ricerca di un rifugio in cave, grotte, luoghi nascondino di pace o grazie alla sua abilità nel costruire connessioni visive originali. Il tono riflessivo pervade queste liriche, andando ad annientare “topos” e stilemi classici e in qualche modo ottenebrando quella che invece è una voce intensa di storie e racconti, anche esotici, che sa rendere in versi stringenti l’altrove e il lontano da sé. Il ritmo è talvolta spezzato in versi paratattici poco complessi che non lasciano nulla al piacere delle immagini che evocano, costringendo il lettore a ingurgitare l’amaro calice dell’esistere. L'abilità e la cifra stilistica di questa raccolta sta nella capacità di costruire immagini complesse che si susseguono spesso in maniera verticale e per fratture, come se l'autore eseguisse una scansione vertiginosa nelle sue memorie e le sputasse tutte insieme mescolando paesaggi lontani a frame di contemporaneità.» (Carmine De Falco)




D’ora in poi di Adalgisa Zanotto (Marostica, VI)

Adalgisa Zanotto vive a Marostica. Moglie e madre di tre figli, lavora presso un Ente Pubblico. È attiva nel volontariato sociale. Suoi racconti e poesie sono inseriti in diverse opere collettanee. Ha ricevuto vari riconoscimenti: ultimamente ha vinto la sez. Racconto del concorso Rapida.mente 2015 con pubblicazione nella omonima antologia nel 2016 dà alle stampe la raccolta di racconti (selezionati anche dal concorso Faraexcelsior) Celestina. Seconda ex aequo al concorso Versi con-giurati, ha ricevuto la pubblicazione premio della raccolta Sussurri e respiri (Fara 2017).



I.  LA CASA

ascolto respiro la parola casa
più grande del mondo             necessaria come il pane
            vicino alla stufa accesa                      il bucato da asciugare
i due piccoli si rincorrono
                                                           non sanno                  
            la gatta li guarda dalla finestra                     
le mie mani tremano
                                   una fame di braccia e labbra riprende la fila
dietro Lucia e Francesco                    radici irraggiungibili                         
                        li bacio carezzo stringo senza dire
il movimento sospetto                        ora certezza inspiegabile
                                                           della dimensione
che qualcuno               percorrerà per raggiungerci                



all'albicocco giovane fiorito nell'orto
                        su quel ramo alto è sbocciato piano
un altro fiore
            sicuro del suo posto guarda radici e foglie
            resta chiaro e necessario: sa a chi appartiene
           
il miracolo dello schiudersi    

il silenzio del seme che si sposa in inverno

sembra scoperchiare un mondo di mancanze            la tenda che si arrotonda
davanti l'ingresso di casa                               pancia che tiene la vita          
non mi fa uscire al freddo in cortile               nudo di frusta            
            sui rami instancabili ali                      i cachi color delle arance
commuovono il sangue in vene feconde
            del frutto d'amore che smette l'inverno
                        nelle fibre nascoste d'anima
                                   le sole che posso sentire                    
                                               già sapevano da bambina


«Il libro si apre con questa dedica: A Mariacristina Cella Mocellin, che ha voluto essere mamma fino in fondo e, davanti a un tumore comparso durante la sua terza gravidanza, ha scelto di sottoporsi alle cure mediche che non avrebbero messo a rischio la vita del figlio. Per dirle grazie. Per dirle il bene che ha lasciato sulla terra. Bellissima e pericolosissima. Il rischio di cadere in versi retorici dopo una premessa del genere è altissimo. Rischio del tutto evitato. I versi che compongono questo poemetto sono essenziali ed efficaci, vanno in profondità e scandiscono un tempo di gioia e di dolore indicibili, di attesa di un evento lietissimo e di malattia. E sono di una bellezza, mi permetto, che talvolta toglie il fiato. Soprattutto in quell’ultimo paragrafo, Rinascita. Per raccontare in versi una tale verità e farlo con questo trasporto emotivo senza mai scadere e senza mai palesare troppo e senza mai, soprattutto, esibire, ci vuole un Poeta. Qui abbiamo un Poeta. Commovente non mai per pietismo, sempre per bellezza. Faccio i miei più sinceri complimenti e mi sento di esprimere gratitudine.» (Massimiliano Bardotti)



La stanza del poeta di Chiara Catapano (Trieste)

Chiara Catapano è nata a Trieste nel 1975. Poetessa, insegnante, traduttrice da e verso il neo greco, collabora con la rivista intenazionale Traduzionetradizione. Ha curato la riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine per la Fondazione del Museo storico del Trentino. Collabora con la rivista di poesia on line L’ombra delle parole. È stata curatrice per Thauma Edizioni, Pesaro, collaborando col poeta Serse Cardellini. Traduce per Mincione Edizioni romanzi greci.


Di quando Majakovskij in sogno ha letto una mia poesia

Considera questo: nulla di diverso
Solo una nota vagamente asprigna sull'amara radice.
La voce più tremenda della sua apparizione;
Le parole, scheletri di luce.
E lui seduto, terastico impassibile
Frusta l'aria dentro l'ugola russa.
Majakovskij non mi era mai venuto a trovare in precedenza;
L'ho considerato un gesto delicato
Compiuto senza troppi complimenti,
Alla sua maniera.

Ha raccolto i miei versi in grappoli metallici
Il succo lo premeva fuori
Schiacciando tra le mandorle
Dei denti, chicco dopo chicco
Il latte di un qualche arcaico sacrificio.
Ma poi com'era carico di senso il suo idioma
Una sorta di terra vergine tra il russo e il sogno;
Io dipingevo i suoni a doppia lama
Che non raggiungevano niente e nessuno
Ma che s' incatenavano all'aria vibrante santità.
Il Dio ebbro della poesia non cercava più la sua morte,
E lui pareva contemplato dai cieli
Splendido, inarrivabile.
Il brusio della vita calato in quel fosco paradigma
Dentro l'ingranaggio dell'uditorio
Nel perfetto silenzio divaricato tra le parole.

«Attraverso un dire complesso che utilizza diversi codici “mediali” l’autrice dà forma a una sorta di diario in versi in cui dischiude il suo dialogo con autori e personaggi più o meno illustri ripescati nella grande tradizione artistica novecentesca, talvolta palesi, talaltra non detti – come nei riferimenti facilmente rintracciabili nelle figure onomatopeiche e nelle sinestesie, stilemi classici della poesia italiana filtrati dall'esperienza biografica dell'autrice. I riferimenti recenti si mescolano in maniera caleidoscopica a continui riferimenti al mito antico – in un andirivieni di “luoghi” letterari spesso distanti, in alcuni casi orientali. Un Oriente naturale che ha il sapore di alcune immagini del Pound “italiano”. Pezzo dopo pezzo si delinea una geografia spaziale e temporale che si muove tra Mediterraneo e lontano Oriente, tra gli echi della mitologia classica e schegge di vissuto urbano romano contemporaneo. La lingua poetica resta ancorata alla tradizione linguistica italiana più cristallina con un sapiente dosaggio delle parole e delle figure, spezzato talvolta da un'abbandonata colloquialità. La natura e più in generale la realtà esterna (l’outdoor) viene spesso a reclamarsi e irrompe quasi in autonomia, come se l’autrice non ne fosse padrona, con accenti talvolta panici come in 13 novembre 2017. Il materiale biografico si perde così nel sogno e nell’altrove in un labirintico mondo immaginifico. Pound sembra essere presente anche in certo modo enciclopedico di legare i “pezzi” tra di loro e nella forma quasi di canto dell'opera nel suo complesso. Al contrario il discorso in prima persona sembra avere il tono più vivido di un Dylan Thomas. Una poesia che si nutre dell’altro e del reale per avere esistenza, per certificare l’Essere e il Logos, come diventa palese nel dialogo finale a due voci, non a caso intitolato l'immagine poetica: “A volte ho un po’ di ansia, mi chiedo se saremo in grado di raccogliere le idee che ci stanno visitando, in questa nostra ricerca sull’immagine poetica viva…” (Carmine De Falco)

«Per l’originale componimento Di quando Majakovskij in sogno ha letto una mia poesia (in particolare i versi“un gesto delicato / Compiuto senza troppi complimenti”, e per la poesia Tara’s Place quando dice: “Non rami ma il loro protendersi: / di questo noi parliamo / quando parliamo degli alberi”.» (Antonella Jacoli)





Quello che ancora restava da dire 
di Giuseppe Carlo Airaghi (Lainate, MI)

Giuseppe Airaghi, sposato, due figli adolescenti, fa l’impiegato dopo avere fatto in passato il geometra, il rappresentante, l’accompagnatore turistico, il cantante in una blues band e l’agente immobiliare. Sul comodino ha sette libri che sta leggendo contemporaneamente, teme che non ne finirà nemmeno uno.


Giorno di mercato

Nella luce distesa del mattino
resta qualcosa impigliato alle fronde
dei platani vigili a proteggere
i banchi indifesi del mercato.
Resta qualcosa impigliato ai tendoni
colorati, ai vulnerabili carciofi esposti,
già sbucciati, all'arcobaleno stinto
delle magliette appese alle grucce,
all'afrore di pesce fritto nel furgone,
a quello dei cani tenuti al guinzaglio
che si fiutano l'un l'altro il sedere,
ai sorrisi azzannati, scambiati, condivisi
da questa umanità animale
aggrappata alla vita
e alla fatica della presa.

Resta qualcosa impigliato
a qualcosa che rinasce anche oggi,
per cui vale la pena esserci
e confondersi,
per cui innamorarsi ancora,
innamorarsi come i vecchi
che ancora non si fidano
di lasciare a casa il cappello
e che si tengono per mano
trascinando il carrello
con dentro la verdura che spunta
più colorata di un fiore,
più saporita di una rosa. 

«Può la sabbia trattenere le parole a lei affidate? Sicuramente il poeta sa che la sabbia non le sgretola, forse le sposta nelle maree o in balia del vento ma ne trattiene memoria, come l’immagine sul muro bianco di una stanza o l’immagine riflessa del volto nello specchio. Le parole si avvolgono di ricordi, di desideri rimasti tali e momenti di realizzazione. La vita, in poesia, tra allitterazioni e metafore: “Lo specchio sulla cassettiera / spalanca assenze, le colma, / accoglie prospettive insospettate”.» (Bruna Cicala)


Imminenti stati di necessità 
di Andrea Parato (Riccione, RN)

Andrea Parato è nato a Rimini nel 1979, ma vive a Riccione dal 2008. Ha pubblicato saggi sulla comunicazione, racconti e sillogi di poesia (www.andreaparato.com) e ha vinto diversi concorsi letterari con pubblicazione delle sue poesie. Oltre alla formazione (tiene incontri in tema di comunicazione), si occupa di editoria e di web editing. Ha partecipato ad Anima d’Autore su Icaro TV ed è presente in vari siti e blog e in molte antologie fariane.



Stato di necessità. “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto
dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona,
pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile,
sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”( art. 54 Codice Penale).


Il seme

Percorsa tanta strada,
confitto affossato
ancora al punto di partenza
mal piantato in attesa.
Le male abitudini incatenano l'animo
prosciugano il cuore,
come un fiume interrato in agosto
carsico dispendio per chi brama pioggia,
come la terra che manca a coprirlo
bruciata di stupore dallo scirocco.

Dal fondo di aride crepe ti invoco:
acqua alla mia sete
rimescola questa zolla,
uccidimi, per farmi germogliare.




«Chi ha scritto questi versi ha, a mio avviso, una padronanza dello strumento poetico eccezionale. Ho trovato il dialogo poetico dedicato alla vicenda del “figliol prodigo” di una cura e di una bellezza difficile da esprimere. Ma davvero ho amato ogni singola poesia. Mi è risultato infatti difficilissimo scegliere di mettere questa opera al terzo posto anziché al secondo o al primo, ma ho ritenuto le altre due strutturate in maniera più coerente. Ma non ne faccio una colpa dell’autore o dell’autrice, questa può essere una percezione del tutto soggettiva. Potrei essere io a non aver capito e in questo caso mi scuso. Ma sui contenuti, sulla forma dell’opera e sulla qualità della scrittura di chi ha scritto questi versi ho da dire solo bene. Da segnalare la varietà stilistica, qui il poeta si è dimostrato capace di usare, a seconda dell’esigenza, diverse voci e diversi ritmi, diverse stanze e strofe, mostrando come la tecnica possa essere utilissima anzi indispensabile, se messa al servizio della poesia e non il contrario. Un’opera riuscitissima, complimenti.» (Massimiliano Bardotti)


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