Giuseppe Vanni, Paris Necker, Fara Editore 2018, pp. 128
recensione di Nazario Pardini pubblicata su Alla volta di Leucade
Interiorità, poesia civile, e infine il sorriso dei bambini: questa la trilogia di Giuseppe Vanni; questo il suo percorso umano, meditativo e poetico. Paris Necker il titolo della plaquette. Paris la città della clinica. Necker è un ospedale pediatrico, dove, come scrive Claudia Rubini nella prefazione “… l’Autore ha vissuto un’esperienza di vita eccezionalmente intensa con suo figlio, nato con una grave malattia genetica…”. Dieci i sottotitoli in cui si snoda questa storia di forte empatia: Prologo, Il Darwinismo e la Storia, Au bloc, In cerca di un guado, Soteriologia del quotidiano, Interludio, Bozzetto, Pugni in aria, En plein air, Compagnia di naufragi, Epilogo.
Il linguismo si fa, in un climax di riferimenti oggettivi, assiduamente corposo. La partecipazione emotiva interviene davanti ad un succedersi di incastri tecnici che sembrano essere artefici di una narrazione tristemente avvincente: “ referti, esami, pareri, dimissioni, TAC-IRM…”. Lo sguardo del figlio curioso, ignaro del mondo; il sorriso, fuori del tempo, la tristezza che s’insinua tra le righe, tutto ci contamina e ci incatena: “questo tempo/ che ci divarica il presente/ che ci dilata l’esistente/ e che si chiude/ e si dischiude su di noi/ che più non sappiamo/ cos’è prima e cos’è poi”. Un susseguirsi di brevi incastri, che con ritmo apodittico, ci toglie il respiro; ci prende per mano quasi a chiederci il perché di certe soluzioni nella luce opaca di un corridoio angusto, nelle stanche domande sulla malattia: “… boulevard grigi/ E per ultimi noi,/ dispersi/ in questo avamposto/ in cui tutto sembra/ fuori posto”. Gli stessi suoni, di rime o assonanze, creano degli ossimorici giochi nel tessuto epigrammatico del canto. E la natura è questa, sembra giocare con le nostre forze, sembra sfidare il nostro esistere, il nostro essere di uomini impotenti di fronte ad destino: “… urli feroce al mondo/ la tua rabbia/ e io impotente ti guardo/ e penso basta,/ vorrei portarti via”. Persino l’alentour sembra partecipare coi suoi riflessi di stanchezza al succedersi delle emozioni: “… Di lontano/ sullo sguardo spento/ tramonta ora/ un sole stanco”. Tutto si contorna di un melanconico trasporto. L’Autore traduce il suo sentire in un verbalismo segmentato; in una versificazione dove ogni termie assume una connotazione definitiva; dove ogni parola diviene sufficiente a se stessa nel verso: “Ed eccola l’ora/ dei parents/ des enfants/ e di nuovo/ ci approssima/ la buia/ strettoia/ al di qua/ della teca/ in cui già/ ti intravedo/ dalla fessura/ su cui pende/ l’asettico/ camice/ che ancora/ mi attende/ che mi/ anestetizza/ il presente/ che mi riduce/ a meno/ di niente/ se il tuo viso/ non sorride/ oltre questa/ anonima/ barriera/ che ancora/ ci divide”. Un singhiozzare continuo e ritmato. Una corsa affannata verso il senso del nulla; verso un abbraccio mancato; verso un caso patito; verso il bianco di un camice che divide dal sogno, dal giorno, dalla luce, dal figlio.
Il linguismo si fa, in un climax di riferimenti oggettivi, assiduamente corposo. La partecipazione emotiva interviene davanti ad un succedersi di incastri tecnici che sembrano essere artefici di una narrazione tristemente avvincente: “ referti, esami, pareri, dimissioni, TAC-IRM…”. Lo sguardo del figlio curioso, ignaro del mondo; il sorriso, fuori del tempo, la tristezza che s’insinua tra le righe, tutto ci contamina e ci incatena: “questo tempo/ che ci divarica il presente/ che ci dilata l’esistente/ e che si chiude/ e si dischiude su di noi/ che più non sappiamo/ cos’è prima e cos’è poi”. Un susseguirsi di brevi incastri, che con ritmo apodittico, ci toglie il respiro; ci prende per mano quasi a chiederci il perché di certe soluzioni nella luce opaca di un corridoio angusto, nelle stanche domande sulla malattia: “… boulevard grigi/ E per ultimi noi,/ dispersi/ in questo avamposto/ in cui tutto sembra/ fuori posto”. Gli stessi suoni, di rime o assonanze, creano degli ossimorici giochi nel tessuto epigrammatico del canto. E la natura è questa, sembra giocare con le nostre forze, sembra sfidare il nostro esistere, il nostro essere di uomini impotenti di fronte ad destino: “… urli feroce al mondo/ la tua rabbia/ e io impotente ti guardo/ e penso basta,/ vorrei portarti via”. Persino l’alentour sembra partecipare coi suoi riflessi di stanchezza al succedersi delle emozioni: “… Di lontano/ sullo sguardo spento/ tramonta ora/ un sole stanco”. Tutto si contorna di un melanconico trasporto. L’Autore traduce il suo sentire in un verbalismo segmentato; in una versificazione dove ogni termie assume una connotazione definitiva; dove ogni parola diviene sufficiente a se stessa nel verso: “Ed eccola l’ora/ dei parents/ des enfants/ e di nuovo/ ci approssima/ la buia/ strettoia/ al di qua/ della teca/ in cui già/ ti intravedo/ dalla fessura/ su cui pende/ l’asettico/ camice/ che ancora/ mi attende/ che mi/ anestetizza/ il presente/ che mi riduce/ a meno/ di niente/ se il tuo viso/ non sorride/ oltre questa/ anonima/ barriera/ che ancora/ ci divide”. Un singhiozzare continuo e ritmato. Una corsa affannata verso il senso del nulla; verso un abbraccio mancato; verso un caso patito; verso il bianco di un camice che divide dal sogno, dal giorno, dalla luce, dal figlio.
Si incalzano le une dopo le altre le tappe di questo calvario: una successione di stazioni da via crucis, dove la croce sempre più pesante porta a confessioni di amaro sapore: “… e spero/ che se vivi/ avrai pietà/ di questo padre/ del suo coraggio/ al macero/ e del gorgo/ in cui debole/ affoga/ nella sera/ senza te”.
La telefonata, La paura, La medicazione, Petits fleurs, …
La telefonata, La paura, La medicazione, Petits fleurs, …
tanti episodi che, concatenati gli uni agli altri, dànno un ensemble compatto ed organico; un poema di largo respiro dove si concretizza la visione della precarietà umana di fronte al mistero del bene e del male; e dove il poeta con tutta la sua verve verbale riesce a dare corpo ad un magma interiore che scalpita per venire alla luce; per mutarsi in una poesia calda e ontologicamente vissuta, esperita in un travaglio di coinvolgente umanità. Fino all’Epilogo: Onnipotenza. “Non tra queste stanze/ brilla il Verbo onnisciente,/ il Dio che plasma la Natura/ a misura e immagine/ dei pensieri del credente./ Resta questa origine/ un mistero, il male/ che ci tiene ignari/ al cospetto/ del presente austero:/ non più il dogma/ dell’infallibile sapienza/ ma la genetica/ nuovo avamposto/ della scienza…” dove “il lento ricamo/ che scandisce il tempo/ di noi compunti/ in una sagoma amorfa,/ di noi che è facile dire/ se Dio è assente/ allora non c’è niente…”.
Una riflessione amara sul tutto: il tempo, l’uomo, il trascendente, la Provvidenza. Una vicenda che, con la sua intensa portata, fa dell’essere un guscio di noce sperso in un mare senza limiti; in una vastità che perde ogni senso nelle calamità del presente.
Una riflessione amara sul tutto: il tempo, l’uomo, il trascendente, la Provvidenza. Una vicenda che, con la sua intensa portata, fa dell’essere un guscio di noce sperso in un mare senza limiti; in una vastità che perde ogni senso nelle calamità del presente.
Nessun commento:
Posta un commento