Non si pone domande Claudia, in Ipotetico Approdo (Mediagraf Edizioni, 2017) non fa retorica, non accusa pur indovinando tra i suoi versi, in sottofondo, un’ironia tragica e solenne. Poetessa dei tempi, si permette di giocare con un testo bilingue che incanta, lo rende fruibile e godibile nelle attese disattese di un probabilissimo Godot che è lei stessa, la metà dell’uovo romantica nella notte che si ricompone nel tutto nascosto del giorno: “Due tuorli in un uovo / la vita e il suo doppio / … Je suis ici /… Est ce que tu crois / que l’amour s’apprènde? … frammenti impazziti / en attendant Godot.”
Romantica lo è la poetessa, i richiami a Jack e Rose spuntano tra le pagine come a voler affermare che i sogni e le ali non si sono adagiati e nonostante le rotte impreviste possono raggiungere l’approdo, questa volta non ipotetico: “Rose è ferma sulla polena / delle sue paure… ma vuole credere / che il suo Jack virtuale / condivida un affetto reale” ma “Jack non esiste più… / non è che uno scherzo della solitudine/il clone di un delirio, / frutto di una fantasia”.
Le parole si susseguono con un ritmo consapevole, ammaliante per la mancanza di tempeste e bassi fondali, capace di farti volare in alto in un regno dove l’urlo di condanna si spalma e la sofferenza delle mancanze si fa canto. Ogni parola “si” lascia assaporare prima di scivolare dolcemente sulla parola che la segue e, molto spesso, il tutto si sublima in una rima che fa capolino tra i versi liberi, mai scontata, mai scordata, sempre precisa e piacevole: “Brucia questo male / atavico, immeritato / duole l’animo di / madre nell’urlo silente / vacilla la pazienza, / risorge dalle ceneri / la sua forza.”
Sulla poetica della nostra poetessa, in molti hanno espresso giudizi precisi, riconoscendo la grande cultura che Claudia dispensa senza ostentazione. Ho voluto scrivere qualcosa che esuli dal coro più che meritato di consensi e riconoscimenti, pur condividendoli totalmente.
Claudia Piccinno ci fa vedere le sofferenze, le ingiustizie, la diversità e il dolore, come in realtà sono, un tributo dovuto alla vita dal quale nessuno è esente. Proprio per questo si sente addosso lacerante, ti artiglia e ti condanna a chiederti se hai mai veramente compreso la moltitudine che ti circonda.
Forse queste stesse domande se le pone lei stessa, in alternanza continua tra desideri mal celati e disillusioni, approdi e ormeggi, per citare le parole della sua stessa postfazione, tra sogno e concretezza.
La dedica alla madre è rivelatrice: solo una madre sa percepire quali ostacoli rendono difficile il percorso di un figlio, solo verso una madre si rivolgono gli occhi di un figlio per cercare il bandolo che lo farà uscire dal labirinto che lo opprime. E solo verso una madre il cuore cerca la tenerezza che manca, come leggiamo in Dolore e forza: “Sto abitando il tuo dolore madre mia / … / ho respirato la tua forza senza averlo mai saputo/ sin dal mio viaggio nel tuo liquido amniotico / … / ci sono eredità che si moltiplicano / come fossero spilli sopra / l’asse di equilibrio. / Dolore e forza. / E rinascita.”
Claudia Piccinno bisogna leggerla usando gli occhiali sul dolore di una Wislawa Szymborska innamorata delle meraviglie che la vita offre: “… non ricordare per un attimo che si è parlato a luci spente” e “stare dentro gli eventi cercando il più piccolo errore” ricercando nello stesso tempo la somiglianza dell’uomo nel divino, nella rassegnazione al dolore senza domani, pur non ostentando profonda spiritualità religiosa: “Sull’eterna tenzone tra fede e ragione «Sia lampada ai miei passi / la tua parola» / perché io scopra / nella preghiera / il vero antidoto / all’altrui indifferenza.”
Nel doloroso percorso delle illusioni perdute, dilaga imprevedibile ma tangibile, la potenza di “un piano b”, quello che né la poetessa né noi lettori avevamo previsto, quello che “l’anima persegue a suo volere, / e che ti vede oggetto di un approdo / nei meandri sconfinati di un abbraccio” dove anche noi, con lei, riposeremo consapevoli.
Romantica lo è la poetessa, i richiami a Jack e Rose spuntano tra le pagine come a voler affermare che i sogni e le ali non si sono adagiati e nonostante le rotte impreviste possono raggiungere l’approdo, questa volta non ipotetico: “Rose è ferma sulla polena / delle sue paure… ma vuole credere / che il suo Jack virtuale / condivida un affetto reale” ma “Jack non esiste più… / non è che uno scherzo della solitudine/il clone di un delirio, / frutto di una fantasia”.
Le parole si susseguono con un ritmo consapevole, ammaliante per la mancanza di tempeste e bassi fondali, capace di farti volare in alto in un regno dove l’urlo di condanna si spalma e la sofferenza delle mancanze si fa canto. Ogni parola “si” lascia assaporare prima di scivolare dolcemente sulla parola che la segue e, molto spesso, il tutto si sublima in una rima che fa capolino tra i versi liberi, mai scontata, mai scordata, sempre precisa e piacevole: “Brucia questo male / atavico, immeritato / duole l’animo di / madre nell’urlo silente / vacilla la pazienza, / risorge dalle ceneri / la sua forza.”
Sulla poetica della nostra poetessa, in molti hanno espresso giudizi precisi, riconoscendo la grande cultura che Claudia dispensa senza ostentazione. Ho voluto scrivere qualcosa che esuli dal coro più che meritato di consensi e riconoscimenti, pur condividendoli totalmente.
Claudia Piccinno ci fa vedere le sofferenze, le ingiustizie, la diversità e il dolore, come in realtà sono, un tributo dovuto alla vita dal quale nessuno è esente. Proprio per questo si sente addosso lacerante, ti artiglia e ti condanna a chiederti se hai mai veramente compreso la moltitudine che ti circonda.
Forse queste stesse domande se le pone lei stessa, in alternanza continua tra desideri mal celati e disillusioni, approdi e ormeggi, per citare le parole della sua stessa postfazione, tra sogno e concretezza.
La dedica alla madre è rivelatrice: solo una madre sa percepire quali ostacoli rendono difficile il percorso di un figlio, solo verso una madre si rivolgono gli occhi di un figlio per cercare il bandolo che lo farà uscire dal labirinto che lo opprime. E solo verso una madre il cuore cerca la tenerezza che manca, come leggiamo in Dolore e forza: “Sto abitando il tuo dolore madre mia / … / ho respirato la tua forza senza averlo mai saputo/ sin dal mio viaggio nel tuo liquido amniotico / … / ci sono eredità che si moltiplicano / come fossero spilli sopra / l’asse di equilibrio. / Dolore e forza. / E rinascita.”
Claudia Piccinno bisogna leggerla usando gli occhiali sul dolore di una Wislawa Szymborska innamorata delle meraviglie che la vita offre: “… non ricordare per un attimo che si è parlato a luci spente” e “stare dentro gli eventi cercando il più piccolo errore” ricercando nello stesso tempo la somiglianza dell’uomo nel divino, nella rassegnazione al dolore senza domani, pur non ostentando profonda spiritualità religiosa: “Sull’eterna tenzone tra fede e ragione «Sia lampada ai miei passi / la tua parola» / perché io scopra / nella preghiera / il vero antidoto / all’altrui indifferenza.”
Nel doloroso percorso delle illusioni perdute, dilaga imprevedibile ma tangibile, la potenza di “un piano b”, quello che né la poetessa né noi lettori avevamo previsto, quello che “l’anima persegue a suo volere, / e che ti vede oggetto di un approdo / nei meandri sconfinati di un abbraccio” dove anche noi, con lei, riposeremo consapevoli.
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