Angela Caccia: Accecate i cantori, FaraEditore, ottobre 2017
recensione di Vincenzo D'Alessio
Angela Caccia scrive con forza magmatica. Questa è la prima fruibile emozione che giunge dalla lettura delle poesie della sua ultima raccolta Accecate i cantori, pubblicata presso l’Editore Fara di Rimini, quale vincitrice assoluta del Concorso annuale Versi Con-giurati, edizione 2017.
Si aggiunga, in seguito, l’aria che ha respirato e respira, oggi, attraverso gli occhi nell’antica terra di Calabria: colonie greche, affacciata sul mare che ha visto le traversate delle popolazioni provenienti dalle sponde care al poeta Ugo Foscolo.
Inevitabilmente tutta la presente raccolta, che ha radici nelle precedenti pubblicate, prende energie vitali dalla mitologia greca.
Il primo mito è legato alla poesia eponima: “(…) a sera / nella camera oscura del ventre / ricomporre i minuti raccolti preziosi – poi – / ancora una volta accecate i cantori! / … che un po’ di futuro si faccia remoto” (pag. 26). Alla corte dei Feaci, dinanzi al re Alcinoo, Demòdoco (il cieco narratore) canta le gesta di Troia e di Odisseo, presente nella sala, risvegliandone la memoria sopita dal trauma della tempesta marina.
Dunque questa è la forza del cantore: riportare in vita la memoria sopita/ infranta di fronte alle tempeste della vita.
L’oscurità della notte, vissuta dal cieco cantore, svela quanto egli ha accumulato ascoltando le voci del popolo, della gente di mare, degli stranieri approdati dopo lunghi viaggi in un mare inclemente.
Il buio della mente che non riesce a recuperare le sue memorie, come si evince nei versi della poesia dedicata dalla poeta a sua madre: “(…) Mi chiedo cosa Tu voglia – Dio – che / mi strappi di dosso il suo nome / mi togli la sola cittadinanza che mi riconosca / la terra da cui – staccata – m’è cresciuta l’anima / la pioggia che – in me – diluvia bene e male” (pag. 37), è l’incombente preghiera che la Nostra rivolge a Dio, qualunque sia il suo vero nome per lenire la sofferenza dello stato in cui versa.
L’unica presenza paterna che si coglie in tutte le composizioni è Dio: “(…) Dio che sa di madre / solo per ritrovare in me il vecchio seminatore” (pag. 60).
Il mito del dolore e della sofferenza perpetrato sull’Io poetante e sul genere umano è riportato nel mito greco di Sisifo: “(…) che non sposta di tre passi il suo masso” (pag. 34). Percezione del dolore che viene raccolto e presentato al lettore più volte nella parola “sangue” in diversi punti delle composizioni.
L’io famigliare; la necessità del quotidiano che imperversa ad ogni risveglio; gli angoli della casa, gli oggetti, l’armonia felice delle persone che coabitano con la poeta; i profumi, la musica, la volontà di “ calare il piede / nella traccia buona / già calcata”, costituiscono il dialogo/ monologo voluto nell’incontro con gli occhi del lettore.
Angela Caccia è il cieco cantore minacciato dalle forze oscure del “male” contemporaneo che sacrifica la verginità della “parola” / del verso, per ridurla a mera prosa, incapace di sopravvivere alla polvere del Tempo: “ (…) nascere resta fedeltà alla cenere / e – grazie a Dio – si muore… / ma fino ad allora / i sogni restano vigili” (pag. 41).
Molteplici sono le emozioni che emergono dalla lucida poetica della Nostra.
A noi tornano cari i sogni reali risvegliati nei versi che presentano il mondo contadino, oggi scomparso nelle fauci del cemento, rimodulato non nel ricordo tremulo ma nell’empatia del mistero delle sue millenarie origini come si coglie nei versi della Nostra: “Borghetto di campagna / (…) sulle soglie sguardi come corridoi / chiedono / cedono una semplicità che conosco, / (…) silenzi trasognati / tutto è come un grande cuore addormentato” (pag. 58).
Le similitudini animate nella raccolta danno la veridicità di quel sonno/buio in cui è calato il mondo ancestrale dei poeti che, come degli entomologi, collezionano farfalle affidandole alla “(…) disperazione degli spilli” (pag. 57) – Per traslato gli esapodi degli insetti sono paragonabili all’esametro greco ricercato nei versi di questa raccolta dalla poeta.
Veramente stupenda questa raccolta! Bene ha scelto la Giuria affidandole il compito maggiormente rappresentativo di un Concorso nazionale. Vere risultano le parole in quarta di copertina dove è sintetizzato l’intero valore del canto che sommerge gli occhi dei lettori da questo scrigno magnogreco: “Questo libro (…) vi scaverà a fondo con il suono di immagini bellissime nella loro concretezza palpabile, con la poesia che si rivela(assieme alla preghiera) forse l’unica modalità di accettare la parola fine, (…) ad accogliere quella soglia abissale e ignota che sembra ingoiare ogni senso, ogni parola.”
Si aggiunga, in seguito, l’aria che ha respirato e respira, oggi, attraverso gli occhi nell’antica terra di Calabria: colonie greche, affacciata sul mare che ha visto le traversate delle popolazioni provenienti dalle sponde care al poeta Ugo Foscolo.
Inevitabilmente tutta la presente raccolta, che ha radici nelle precedenti pubblicate, prende energie vitali dalla mitologia greca.
Il primo mito è legato alla poesia eponima: “(…) a sera / nella camera oscura del ventre / ricomporre i minuti raccolti preziosi – poi – / ancora una volta accecate i cantori! / … che un po’ di futuro si faccia remoto” (pag. 26). Alla corte dei Feaci, dinanzi al re Alcinoo, Demòdoco (il cieco narratore) canta le gesta di Troia e di Odisseo, presente nella sala, risvegliandone la memoria sopita dal trauma della tempesta marina.
Dunque questa è la forza del cantore: riportare in vita la memoria sopita/ infranta di fronte alle tempeste della vita.
L’oscurità della notte, vissuta dal cieco cantore, svela quanto egli ha accumulato ascoltando le voci del popolo, della gente di mare, degli stranieri approdati dopo lunghi viaggi in un mare inclemente.
Il buio della mente che non riesce a recuperare le sue memorie, come si evince nei versi della poesia dedicata dalla poeta a sua madre: “(…) Mi chiedo cosa Tu voglia – Dio – che / mi strappi di dosso il suo nome / mi togli la sola cittadinanza che mi riconosca / la terra da cui – staccata – m’è cresciuta l’anima / la pioggia che – in me – diluvia bene e male” (pag. 37), è l’incombente preghiera che la Nostra rivolge a Dio, qualunque sia il suo vero nome per lenire la sofferenza dello stato in cui versa.
L’unica presenza paterna che si coglie in tutte le composizioni è Dio: “(…) Dio che sa di madre / solo per ritrovare in me il vecchio seminatore” (pag. 60).
Il mito del dolore e della sofferenza perpetrato sull’Io poetante e sul genere umano è riportato nel mito greco di Sisifo: “(…) che non sposta di tre passi il suo masso” (pag. 34). Percezione del dolore che viene raccolto e presentato al lettore più volte nella parola “sangue” in diversi punti delle composizioni.
L’io famigliare; la necessità del quotidiano che imperversa ad ogni risveglio; gli angoli della casa, gli oggetti, l’armonia felice delle persone che coabitano con la poeta; i profumi, la musica, la volontà di “ calare il piede / nella traccia buona / già calcata”, costituiscono il dialogo/ monologo voluto nell’incontro con gli occhi del lettore.
Angela Caccia è il cieco cantore minacciato dalle forze oscure del “male” contemporaneo che sacrifica la verginità della “parola” / del verso, per ridurla a mera prosa, incapace di sopravvivere alla polvere del Tempo: “ (…) nascere resta fedeltà alla cenere / e – grazie a Dio – si muore… / ma fino ad allora / i sogni restano vigili” (pag. 41).
Molteplici sono le emozioni che emergono dalla lucida poetica della Nostra.
A noi tornano cari i sogni reali risvegliati nei versi che presentano il mondo contadino, oggi scomparso nelle fauci del cemento, rimodulato non nel ricordo tremulo ma nell’empatia del mistero delle sue millenarie origini come si coglie nei versi della Nostra: “Borghetto di campagna / (…) sulle soglie sguardi come corridoi / chiedono / cedono una semplicità che conosco, / (…) silenzi trasognati / tutto è come un grande cuore addormentato” (pag. 58).
Le similitudini animate nella raccolta danno la veridicità di quel sonno/buio in cui è calato il mondo ancestrale dei poeti che, come degli entomologi, collezionano farfalle affidandole alla “(…) disperazione degli spilli” (pag. 57) – Per traslato gli esapodi degli insetti sono paragonabili all’esametro greco ricercato nei versi di questa raccolta dalla poeta.
Veramente stupenda questa raccolta! Bene ha scelto la Giuria affidandole il compito maggiormente rappresentativo di un Concorso nazionale. Vere risultano le parole in quarta di copertina dove è sintetizzato l’intero valore del canto che sommerge gli occhi dei lettori da questo scrigno magnogreco: “Questo libro (…) vi scaverà a fondo con il suono di immagini bellissime nella loro concretezza palpabile, con la poesia che si rivela(assieme alla preghiera) forse l’unica modalità di accettare la parola fine, (…) ad accogliere quella soglia abissale e ignota che sembra ingoiare ogni senso, ogni parola.”
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