A
proposito delle sillogi Dopo l’inverno e Un caso del Sud
recensione di Giuseppe Iuliano
Il
dettato poetico di Vincenzo D’Alessio – valente scrittore ed operatore
culturale – non tradisce né memoria né mission:
ha pagine di testimonianza e profezia; di arcano e sacrale; di materico e mistico.
Traduce alla lettera, per vocabolario di vita, varietà di “passi”, un insieme
di temi e versioni ma anche di distanze e viaggi con traguardi, soste, cadute e
nuove rincorse.
Chi è
figlio del Sud, di ogni lembo o regione della specola mediterranea, da sempre crogiuolo
di civiltà e delle sue negazioni, conosce bene i confini di terra, frontiere ed
orizzonti, e la circolarità delle stagioni e la loro stagnazione. Un insieme di
palpiti, aneliti, “minorità”, dolori e rassegnazioni, che procurano
ripetutamente scatti di mente e cuore. Ecco dove vita e poesia in D’Alessio trovano humus e linfa, sensi e nonsensi, sudori
ed afrori. In esse si associano bisogni di respiro e voce: a volte fiati afoni,
arrochiti, enfisematosi; altre volte distanti fin quasi allo stremo e allo
scontro. E, se all’unisono per abbandono/dolore o canto/dolcezza, si confermano
prove che macerano l’esistenza, l’accompagnano, la strozzano, l’esaltano. Soffiano
parole che gemmano, ramificano, sfioriscono con la complicità o la maledizione
del tempo. Sovrana la lingua, interprete di ansie e pulsioni, mai “sazia del
suo lavoro” che aspetta - dopo asprezze, tremori, increspature, rigidità - di
abitare i paesaggi della natura e dell’anima per superare l’infinità della stagione
fredda e della sua metafora.
D’Alessio
desidera ardentemente di rompere il sortilegio con la silloge Dopo l’inverno (FaraEditore, 2017) – un vizio congenito
che ognuno al Sud si porta cucito addosso come malvagio destino – e sradicare il
dominio senza giustizia, quello che trova figli sazi di pane, diventa padrone
finanche del respiro e sostiene una marea di impostori. Si duole, per contrasto,
di trovare sulla sponda opposta una moltitudine piegata al vivere dei potenti.
Il
persistere dell’inverno alimenta l’attesa del vento di primavera, cui tocca
dare vivacità ed energia ai semi, ed invertire la rotta degli esodi; ma quei
desideri si rivelano sogni dalle ali bagnate e pesanti. C’è di più. D’Alessio
invoca una primavera “partigiana”, sboccio, tra forre macchie e fossi, di linfa
e concime di pace e libertà, messaggeri di un aprile di ogni resistenza.
Ritorna
imperiosa nella successiva raccolta, inserita in appendice a Dopo l'inverno, dal titolo Un caso del Sud, in un gioco di sovrapposizioni – ma tanto si ritrova nell’intera
produzione dalessiana –
l’immagine/preghiera per la terra avita, stravolta dal cemento,
impoverita dalla disseminazione, con occhi bramosi di tregua; una terra che dovrebbe
essere pronuba di ortica per uomini senza clemenza; una terra dalle mammelle di pietra, in cui “morire è
pane / col fiato di uomini”; una terra in cui durano notti insonni con “anime
perse” e senza nome, condannate a mali e distanze che allontanano dall’Eterno.
Il
poeta/testimone, cultore di impegno ed amore sociale, trasmette voglia di nóstos, un insieme di ricordi e nostalgie; una continua incursione nel
paese/mito con case senza tetti, “vene al cielo” tra fantasie, nenie, voci
amiche dagli echi pavesiani. Ed associa, con cosciente dissimulazione, il racconto
del borgo natio, ricco di storia, avvolto come in un sudario dai veli del ragno,
che nel tempo conta il ritorno dei giovani, sempre stranieri.
D’Alessio
aspira a ritrovare il passato per riamare la vita; disdegna la notte ed attende
la luce, ma rimane - solo e con la sorte - con l’anima al buio. Cupezze, sbandi,
accoramenti e (dis)amori intimi e del Sud. Tutto può essere racchiuso con sapienza ed eleganza nella
lirica “Fiore di campo / Un amico. // Un passante e la terra. / Terra: ossa dei
fratelli” (La mia terra). Che è, da
sempre, anche la nostra instancabile e mai sconfessata professione di fede.
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