SE
I TIGLI TUTTORA PROFUMANO
Sono arrivata a Priština seguendo
i miei sogni. Credevo nei sogni, negli ideali, può darsi per questo mi chiamo Sanja*. Qui c’era
l’università che mi doveva indirizzare e formarmi in ciò che poi sono diventata. Il mio primo
approccio con questa città fu l’intenso profumo dei tigli che per sempre mi ha riempito l’anima con un’essenza segreta. Più tardi dedicai una
poesia a questo profumo come fosse la voce del Signore che parla in modo sublime che ogni
anima può recepire, ma che gli artisti possono immortalare.
Ogni anno si ripeteva la magia di quest’avvenimento. Allora non
avevo il presentimento che, a
distanza di tempo, in questa stessa città avrei spesso
sentito odore di sangue, di
bruciato, odore d’avidità, di bestialità, di smanie. L’odore della
forza della più grande potenza del mondo che pensavo
abbastanza lontana con i suoi misfatti.
Ho sentito all’inizio di giugno del 1999 l’odore dei tigli anche a
Belgrado dove arrivai scappando dagli estremisti, ma non era più quel profumo seducente che contribuiva a risvegliare in voi la
giovinezza, come
la natura è capace di
rinnovarsi ogni primavera, a farci sentire innamorati anche se non
si è legati ad una persona fisica, a
farci scintillare gli occhi, ad essere del tutto pervasi dal profumo sensuale
della bellezza che è il dono di Dio.
Da giovane, a Priština, ero entusiasta della libertà e mi ero creata da sola
la mia vita lontana dalla casa
natia. Volevo affermare la mia maturità ed ero pronta
a lottare per la felicità. Mi tuffai nello studio, questo immenso impero di
bellezza e conoscenza e mi abbandonai senza aver il presentimento che dopo, proprio qui, avrei perso la libertà tanto da non poter fare un passo oltre il cortile chiuso a chiave, tanto da
dovermi confrontare con paurose disavventure. Non sapevo che avrei lottato da sola con lo sconforto e la sfortuna
che mi avrebbe perseguitato per tutta la vita.
Mi piaceva la varietà di vita in questa città dove ognuno parlava la propria lingua, pregava il proprio Dio, ma tutti insieme godevano il profumo dei tigli, si davan il
buongiorno e si auguravano buone feste. Sentivo l’orgoglio pensando che era stata la capitale della dinastia medievale dei Nemanjići, che nella chiesa Lazariza
c’erano le reliquie del Principe Lazar*, che conoscevo dei
discendenti delle famiglie che qui vivevano da centinaia di anni. Ciò mi dava il senso d’appartenenza a questo
suolo, la consapevolezza della profondità delle nostre radici.
Mi preoccupava la leggenda che narra che su questo suolo si è sempre sofferto, che ogni regno
qui fondato è decaduto autodistruggendosi. Che la gente ha avuto sempre difficoltà a separarsi da questa
terra. La leggenda narra anche che tanti secoli fa un re, che qui viveva, diede
in sposa sua figlia in qualche parte molto lontana dal Kosovo e che lei non voleva abbandonare il
suo paese. Poichè la giovane promessa sposa rifiutava di andarsene, i fratelli per
punizione la legarono alla coda del cavallo e così morì dilaniata. Da questo
sangue innocente e dall’immenso amore verso la terra natale e verso la
famiglia, rimase la maledizione che qui
ci fossero sempre disgrazie e spargimento di sangue innocente, ciò che avvenne nel corso dei secoli.
Pensavo che le leggende appartenessero al passato e che davanti a me ci fosse il futuro. Ho vissuto la bellezza
e la sofferenza di questa città che è allo stesso modo amata da tutti
quelli che ci hanno vissuto, costruita e preparata anche per avere, più in là, un ruolo particolare.
Questo si intravedeva già da prima che i fatti vennero alla luce.
Mi ricordo il giorno in cui verso la fine
degli anni settanta del XX secolo, a Radio Priština, dove allora
lavoravo, venne una delegazione di artisti, politici, l’elite dall’Albania. Il
tappeto rosso era steso lungo la via cominciando dall’entrata dell’edificio. Quella felicità, quei volti illuminati
degli albanesi che li attendevano non me li dimenticherò mai. Quello fu
l’incontro tra vicini che avevano lo stesso segreto, lo
stesso scopo da perseguire inevitabilmente.
Mi ricordo anche l’ultima volta che venne Tito, accompagnato da
dimostrazioni di piazza di albanesi che strappavano le sue foto e che gridavano contro di lui: “Cane dice, cane disdice!”, delusi dal fatto che ancora non gli aveva concesso lo stato promesso dalla Costituzione del 1974 quando le due regioni della Serbia, Vojvodina e
Kosmet, hanno ottenuto lo stato delle repubbliche, ciòè in seguito il diritto
alla separazione.
Dopo i bombardamenti della Repubblica Jugoslava venne tanta gente dall’Albania, in sostanza tutto l’opposto di quella elite; erano rozzi, miseri, sanguinari. Vidi in un supermercato un giovane
che non sapeva nemmeno cosa fosse un frigorifero.
Rimase smarrito davanti all’apparecchio senza saper che fare e come servirsi del
cibo che era dentro.
La nostra ex vicina di casa, albanese, alla quale sono andata in visita insieme alle mie
figlie nel 2010, fu davvero contenta di quell’incontro
e ci disse: “E’ un vero peccato che i serbi se ne siano andati. E’ venuta gente rozza con la quale non abbiamo nessun contatto. Questa non è
più la stessa città”.
E veramente non lo era più perché per strada non abbiamo potuto incontrare lo
scrittore snello e brizzolato Petar Stefanović, il cronista della vecchia Priština, che era la celebrità sui generis della città, Boro Čorbadžikin e la sua stimatissima consorte Mira, i cui antenati qui hanno
vissuto da secoli. I nostri bei compari Nada e Lazar Ristić che abbellivano la città dignitosamente con la loro
eleganza e signorilità ogni sera passeggiando per la via principale. La bella
poetessa Darinka Jevrić che rimase per tanto
tempo chiusa nel suo appartamento di Priština e che aiutava quei pochi
vecchietti rimasti dopo la partenza della maggior parte dei serbi, ma subito
dopo aver abbandonato la sua terra morì per la tristezza. Lo scrittore e pubblicitario Aleksandar Rakočević col suo papillon
davanti al caffè-bar “I tre cappelli”. Il poeta Hasan Meržan che morì
presto nella lontana Istanbul, il redattore della redazione della lingua turca
a Radio Priština, Muhamed Ustaib che ora vive in un piccolo paesino in Turchia lontano dalla sua
città e professione. Il prestante professore di musica, Vincenzo Gini, che stanco
di quello che stava accadendo, lasciò Priština e se ne andò chissà dove. Il poeta e
pubblicitario Bajram Haliti e altri scrittori rom, anche loro esiliati dalle loro case… Tutti
coloro che hanno reso la vita della città interessante, differente, urbana, le davano un tono particolare...I famosi Moračići, la distinta coppia, prof. dott. Andrij Tomanović e la sua bellissima moglie Verica, che altrettanto incutevano
rispetto con la loro figura. Lui è stato tra i primi ad essere rapito anche se era un chirurgo famoso che curava tutte le persone, specialmente
gli albanesi perché erano la maggior parte dei pazienti; lei invece per il resto
della vita cercò in tutti i modi di scoprire la verità sulle sorti del marito e
di tutte quelle persone scomparse in quel periodo. I giovani e innamorati genitori di quattro figli Vesna
e Ivan Čelić, lui che ha dovuto soffrie in modo terribile dopo esser stato rapito, sicuramente
non avendo
calpestato neanche una formica in vita sua, e i suoi figli e la moglie rimasero
segnati dall’angoscia per sempre. Il professore Vladeta Vuković a cui hanno bruciato l’appartamento e sparato alla porta per
spaventarlo e far in modo da mandarlo via.
Sarebbe lunga la lista delle persone che dovrei citare per la tragedia
che li ha toccati, ma erano solo affezionati alla loro città e credevano di aver il diritto di viverci. I
nostri cari Goranzi* Raštija. con i quali eravamo più che vicini
di casa,
scappati nella Serbia
centrale, a Novi Pazar. E’ giusto ricordare anche
quegli
albanesi che sono morti
innocenti perchè preoccupati solo delle loro famiglie e della salvezza delle proprie anime, non offendendo nessuno, essendo fuori dalla
politica.
Mi ricordavo di tutti loro mentre attraversavamo con un senso di
vuoto il centro di Priština in quell’anno del
2010. Anche
allora i tigli profumavano, ma di un odore triste, da cimitero, come fossero stati sul feretro della
città demolita, come avessero odorato attraverso il peccato diffuso
dall’estremista furibondo mentre nella sua euforia ditruggeva la croce della
chiesa ortodossa di San Nicola a Priština.
Successivamente nel monastero di Grachaniza
(Gračanica) ci hanno raccontato che
questo poi era uscito di testa e che era venuto al monastero di Zochishte
(Zočište) ad Orahovac , altrettanto incendiato, per chiedere il perdono
affinchè lui finisse di sentire l’insopportabile rimbombo delle campane nella
sua testa.
L’esser legata alla sorte del popolo albanese si è manifestato anche in
situazioni inaspettate che all’apparenza non hanno niente a che vedere con la convivenza
del passato. Quando lavoravo alla Televisione di Belgrado c’era un’albanese,
Hajra, funzionaria del SPS* che dovette abbandonare Priština e mai più ritornarci anche se la famiglia
era rimasta là.
Con gioia ascoltava,
al mio ritorno da lì, i racconti della sua città, di cui sentiva l’enorme nostalgia e non la vide più perchè morì dopo una
breve malattìa. Il prezzo che ha pagato per non
acconsentire alla secessione è stato grande. Sicuramente le avranno affibbiato
il nome di rinnegata, ma lei ha solo continuato a vivere come socialista e
appartenente devota all’ideologia del suo partito.
Una volta, anni dopo
tutto ciò, volai a Budva, una
località balneare, quando mi capitò un’altra spiacevole e inaspettata situazione. Mi
abbronzavo al bordo della piscina rilassandomi finalmente dopo tanti pericoli che avevo dovuto correre … Ad un tratto venne una coppia di albanesi con un ragazzo di una decina d’anni.
Si sedettero vicino a noi ed iniziarono a
discutere di politica, elogiando con enfasi la Nato, l’America, il che mi
diede
tanto fastidio. Pensai come fosse possibile che con questa atmosfera così bella
ci fosse gente
che non aveva altri argomenti.
Per non sentirli parlare, entrai in acqua rilassandomi nuotando. Il loro figlio in piscina tirava la palla con prepotenza tanto da infastidire tutti.
Cercavo di allontanarmi il più possibile. Però all’improvviso la palla mi colpì
con forza sulla testa come se avesse mirato verso di me. Ero molto arrabbiata, dissi
loro che ciò era un comportamento
indecente e fastidioso, e che avrebbero dovuto sorvegliare il loro figlio, ”invece di parlare di
politica” pensai dentro di me. Subito raccolsi le mie cose e me ne andai rifletendo come nemmeno qua mi
lasciassero in pace, anche se mi rendevo
conto che fu un puro caso.
Nella casa dove alloggiavo con le mie figlie, c’erano pure due donne
anziane albanesi. Le evitavo per non aver nessun tipo di contatto.
Una mattina venimmo svegliate dal baccano. Uscimmo per vedere cosa
stava accadendo. Ad un ospite venne rubato il portafogli e qualcuno aveva dato la colpa alle
donne albanesi. Loro cercavano disperatamente di dimostrare che non avevano
niente a che fare con tutto ciò, ma nessuno le capiva. Ad un tratto ebbi pietà per quelle persone
innocenti e iniziai a parlare un perfetto albanese per aiutare a chiarire la questione. La signora più anziana mi ringraziò
stupefatta e dopo essersi calmata mi chiese da dove venissi. Appena le dissi che provenivo dal Kosovo e
Metohija,
lei mi abbracciò in modo affettuoso ripetendo incessantemente “oh, Kosovo, Kosovo”, come
se avesse incontrato all’improvviso una parente che non
conosceva. Ero commossa, confusa e ad un tratto capì la fatale realtà che accomuna tutti
noi che amiamo il Kosovo e per il quale dobbiamo morire.
Ed ora che hanno ottenuto formalmente questo Stato, sento che gli
albanesi là vivono duramente, le morti dovute al cancro sono aumentate, i
bambini nascono deformi a causa delle radiazioni, i giovani affogano nelle
droghe e nella lussuria, e mi chiedo se loro volessero tutto questo. Se con noi
stavano veramente così male! Ora chi è il vincitore e chi lo sconfitto? Oppure è come ho
scritto in una poesia: „Il
male comincio potentemente a ballare/ e tutti gli altri rimasero schiaciati“.
E il mio più grande amore, mio marito e padre delle mie figlie, è
rimasto a giacere nella sua città, nel cimitero di Priština, raso al suolo dai
bombardamenti e coperto da erbacce. Quando siam
andate a trovarlo al cimitero, ci siamo spaventate per la paura di non trovarlo, tanto erano alte le
piante. Sulla sua tomba è
cresciuto un albero di visciole, sicuramente per ripararlo dal sole, come quando un tempo
sedeva in giardino all’ombra dell’albero di visciole con i rami pieni di frutti
rossi, senza il presentimento dell’avvicinarsi della morte, né delle erbacce
sulla sua tomba. Le figlie ed io piangendo abbiamo iniziato a tagliare gli arbusti , ma abbiamo anche capito che proprio loro proteggevano il monumento da
eventuali vandali che l’avrebbero distrutto come hanno fatto con le altre tombe
ed allora ci fermammo. I suoi occhi tristi dalla fotografia del monumento guardavano come si fossero meravigliati
dall’improviso mutamento delle cose che nessuno poteva prevedere.
E nuovamente profumarono i tigli, di un’essenza
forte, insopportabile. Ci colpì un pesante odore di
tristezza di vite spezzate, dell’umanità sconfitta
e del trionfo della bestialità come volle il nuovo principio imposto dal Nuovo ordine
mondiale.
Milica Jeftimijević Lilić
Traduzione, Igor Pisani
Rivista dalla poetessa Claudia Piccinno
+381 63 316 668
* Il nome deriva dal verbo sanjati
( sognare ) – nota del traduttore
*Principe medievale serbo, si oppose
all’avanzata turca nella famosa battaglia del 1389 sul Campo dei Merli dove
perì. – nota del traduttore
*Goranzi – gruppo etnico slavo islamizzato di
Kosmet (Kossovo e Metohija) - nota del traduttore
* SPS – Partito socialista serbo - nota del traduttore
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