sabato 16 dicembre 2017

Un racconto autobiografico della nota poetessa Milica Lilić





SE  I TIGLI TUTTORA PROFUMANO

 Sono arrivata a Priština seguendo i miei sogni. Credevo nei sogni, negli ideali, può darsi per questo mi chiamo Sanja*. Qui c’era l’università che mi doveva indirizzare e formarmi in ciò che poi sono diventata. Il mio primo approccio con questa città fu l’intenso profumo dei tigli che per sempre mi ha riempito l’anima  con un’essenza segreta. Più tardi dedicai una poesia a questo profumo come fosse la voce del Signore che parla in modo sublime che ogni anima può recepire, ma che gli artisti possono immortalare.

Ogni anno si ripeteva la magia di quest’avvenimento. Allora non avevo il presentimento che, a distanza di tempo, in questa stessa città avrei spesso sentito odore di sangue, di bruciato, odore d’avidità, di bestialità, di smanie. L’odore della forza della più grande potenza del mondo che  pensavo abbastanza lontana con i suoi misfatti.

Ho sentito all’inizio di giugno del 1999 l’odore dei tigli anche a Belgrado dove arrivai scappando dagli estremisti, ma non era più quel profumo seducente  che contribuiva a risvegliare in voi la giovinezza, come la natura  è capace di rinnovarsi  ogni primavera, a farci sentire innamorati anche se non si è legati ad una persona fisica, a farci scintillare gli occhi, ad essere del tutto pervasi dal profumo sensuale della bellezza che è il dono di Dio.

Da giovane,  a Priština, ero entusiasta della libertà e mi ero creata da sola la mia vita lontana dalla casa natia. Volevo affermare la mia maturità ed ero pronta a lottare per la felicità. Mi tuffai nello studio, questo immenso impero di bellezza e conoscenza e mi abbandonai senza aver il presentimento che dopo, proprio qui, avrei perso la libertà tanto da non poter fare un passo oltre il cortile chiuso a chiave, tanto da dovermi confrontare con paurose disavventure. Non sapevo che avrei lottato da  sola con lo sconforto e la sfortuna che mi avrebbe perseguitato per tutta la vita.

Mi piaceva la varietà di vita in questa città dove ognuno parlava la propria lingua, pregava il proprio  Dio, ma tutti insieme godevano il profumo dei tigli, si davan il buongiorno e si auguravano buone feste. Sentivo l’orgoglio pensando che era stata la capitale della dinastia medievale dei Nemanjići, che nella chiesa Lazariza c’erano le reliquie del Principe Lazar*, che conoscevo dei discendenti delle famiglie che qui vivevano da centinaia di anni. Ciò mi dava il senso d’appartenenza a questo suolo, la consapevolezza della profondità delle nostre radici.

Mi preoccupava la leggenda che narra che su questo suolo si è sempre sofferto, che ogni regno qui fondato è decaduto autodistruggendosi. Che la gente ha avuto sempre difficoltà a separarsi da questa terra. La leggenda narra anche che tanti secoli fa un re, che qui viveva, diede in sposa sua figlia in qualche parte molto lontana dal Kosovo e che lei non voleva abbandonare il suo paese. Poichè la giovane promessa sposa rifiutava di andarsene, i fratelli per punizione la legarono alla coda del cavallo e così morì dilaniata. Da questo sangue innocente e dall’immenso amore verso la terra natale e verso la famiglia, rimase la maledizione che qui ci fossero sempre disgrazie e spargimento di sangue innocente, ciò che                   avvenne nel corso dei secoli.

Pensavo che le leggende appartenessero al passato e che davanti a me ci fosse il futuro. Ho vissuto la bellezza e la sofferenza di questa città che è allo stesso modo amata da tutti quelli che ci hanno vissuto, costruita e preparata anche per avere, più in là, un ruolo particolare.

Questo si intravedeva già da prima che i fatti vennero alla luce. Mi ricordo il giorno in cui verso la fine degli anni settanta del XX secolo, a Radio Priština, dove allora lavoravo, venne una delegazione di artisti, politici, l’elite dall’Albania. Il tappeto rosso era steso lungo la via cominciando dall’entrata dell’edificio. Quella felicità, quei volti illuminati degli albanesi che li attendevano non me li dimenticherò mai. Quello fu l’incontro tra vicini che avevano lo stesso segreto, lo stesso scopo da perseguire inevitabilmente.

Mi ricordo anche l’ultima volta che venne Tito, accompagnato da dimostrazioni di piazza di albanesi che strappavano le sue foto e che gridavano contro di lui: “Cane dice, cane disdice!”, delusi dal fatto che ancora non gli aveva concesso lo stato promesso dalla Costituzione del 1974 quando le due regioni della Serbia, Vojvodina e Kosmet, hanno ottenuto lo stato delle repubbliche, ciòè in seguito il diritto alla separazione.

Dopo i bombardamenti della Repubblica Jugoslava venne tanta gente dall’Albania,  in sostanza tutto l’opposto di quella elite; erano rozzi, miseri, sanguinari. Vidi in un supermercato un giovane che non sapeva nemmeno  cosa fosse un frigorifero. Rimase smarrito davanti all’apparecchio senza saper che fare e come servirsi del cibo che era dentro.

La nostra ex vicina di casa, albanese, alla quale sono andata in visita insieme alle mie figlie nel 2010, fu davvero contenta di quell’incontro e ci disse:E’ un vero peccato che i serbi  se ne siano andati. E’ venuta gente rozza con la quale non abbiamo nessun contatto. Questa non è più la stessa città”.

E veramente non lo era più perché per strada non abbiamo potuto incontrare lo scrittore snello e brizzolato Petar Stefanović, il cronista della vecchia Priština, che era la celebrità sui generis della città, Boro Čorbadžikin e la sua stimatissima consorte Mira, i cui antenati qui hanno vissuto da secoli. I nostri bei compari Nada e Lazar  Ristić che abbellivano la città dignitosamente con la loro eleganza e signorilità ogni sera passeggiando per la via principale. La bella poetessa Darinka  Jevrić che rimase per tanto tempo chiusa nel suo appartamento di Priština e che aiutava  quei pochi vecchietti rimasti dopo la partenza della maggior parte dei serbi, ma subito dopo aver abbandonato la sua terra morì per la tristezza. Lo scrittore e pubblicitario Aleksandar Rakočević col suo papillon davanti al caffè-bar “I tre cappelli”. Il poeta Hasan Meržan che morì presto nella lontana Istanbul, il redattore della redazione della lingua turca a Radio Priština, Muhamed Ustaib che ora vive in un piccolo paesino in Turchia lontano dalla sua città e professione. Il prestante professore di musica, Vincenzo Gini, che stanco di quello che stava accadendo, lasciò Priština e se ne andò chissà dove. Il poeta e pubblicitario Bajram Haliti e altri scrittori rom, anche loro esiliati dalle loro case… Tutti coloro che hanno reso la vita della città interessante, differente, urbana, le davano un tono particolare...I  famosi Moračići, la distinta coppia, prof. dott. Andrij Tomanović e la sua bellissima moglie Verica, che altrettanto incutevano rispetto con la loro figura. Lui è stato tra i primi ad essere rapito anche se era un chirurgo famoso che curava tutte le persone, specialmente gli albanesi perché erano la maggior parte dei pazienti; lei invece per il resto della vita cercò in tutti i modi di scoprire la verità sulle sorti del marito e di tutte quelle persone scomparse in quel periodo. I giovani e innamorati genitori  di quattro figli Vesna e Ivan Čelić, lui che ha dovuto soffrie in modo terribile dopo esser stato rapito, sicuramente non avendo calpestato neanche una formica in vita sua, e i suoi figli e la moglie rimasero segnati dall’angoscia per sempre. Il professore Vladeta Vuković a cui hanno bruciato l’appartamento e sparato alla porta per spaventarlo e far in modo da mandarlo via.
Sarebbe lunga la lista delle persone che dovrei citare per la tragedia che li ha toccati, ma erano solo affezionati alla loro città e credevano di aver il diritto di viverci. I nostri cari   Goranzi* Raštija. con i quali eravamo più che vicini di casa, scappati nella Serbia centrale, a Novi Pazar. E’ giusto ricordare anche quegli albanesi che sono morti innocenti perchè preoccupati solo delle loro famiglie e della salvezza delle proprie anime,  non offendendo nessuno, essendo fuori dalla politica.

Mi ricordavo di tutti loro mentre attraversavamo con un senso di vuoto il centro di Priština in quell’anno del 2010.  Anche allora i tigli profumavano, ma di un odore triste, da cimitero, come fossero stati sul feretro della città demolita, come avessero odorato attraverso il peccato diffuso dall’estremista furibondo mentre nella sua euforia ditruggeva la croce della chiesa ortodossa di San Nicola a Priština.

Successivamente nel monastero di Grachaniza (Gračanica) ci hanno raccontato che questo poi era  uscito di testa e che era venuto al monastero di Zochishte (Zočište) ad Orahovac , altrettanto incendiato, per chiedere il perdono affinchè lui finisse di sentire l’insopportabile rimbombo delle campane nella sua testa.

L’esser legata alla sorte del popolo albanese si è manifestato anche in situazioni inaspettate che all’apparenza non hanno niente a che vedere con la convivenza del passato. Quando lavoravo alla Televisione di Belgrado c’era un’albanese, Hajra, funzionaria del SPS* che dovette abbandonare Priština e mai più ritornarci anche se la famiglia era rimasta là.

Con gioia ascoltava, al mio ritorno da lì, i racconti della sua città, di cui sentiva l’enorme nostalgia e non la vide più perchè morì dopo una breve malattìa. Il prezzo che ha pagato per non acconsentire alla secessione è stato grande. Sicuramente le avranno affibbiato il nome di rinnegata, ma lei ha solo continuato a vivere come socialista e appartenente devota all’ideologia del suo partito.

Una volta, anni dopo tutto ciò, volai a Budva, una località balneare, quando mi capitò un’altra spiacevole e inaspettata situazione. Mi abbronzavo al bordo della piscina rilassandomi  finalmente dopo tanti pericoli che avevo dovuto correre … Ad un tratto venne una coppia di albanesi con un ragazzo di una decina d’anni. Si sedettero vicino a noi ed iniziarono  a discutere di politica, elogiando con enfasi la Nato, l’America, il che mi diede tanto fastidio. Pensai come fosse possibile che con questa atmosfera così bella ci fosse gente che non aveva altri argomenti.

Per non sentirli parlare, entrai in acqua rilassandomi nuotando. Il loro figlio in piscina tirava la palla con prepotenza tanto da infastidire tutti. Cercavo di allontanarmi il più possibile. Però all’improvviso la palla mi colpì con forza sulla testa come se avesse mirato verso di me. Ero molto arrabbiata, dissi loro che ciò era un comportamento indecente e fastidioso, e che avrebbero dovuto sorvegliare il  loro figlio, invece di parlare di politica” pensai dentro di me. Subito raccolsi le mie cose e me ne andai rifletendo come nemmeno qua mi lasciassero  in pace, anche se mi rendevo conto che fu un puro caso.

Nella casa dove alloggiavo con le mie figlie, c’erano pure due donne anziane albanesi. Le evitavo per non aver nessun tipo di contatto.

Una mattina venimmo svegliate dal baccano. Uscimmo per vedere cosa stava accadendo. Ad un ospite venne rubato il portafogli e qualcuno aveva dato la colpa alle donne albanesi. Loro cercavano disperatamente di dimostrare che non avevano niente a che fare con tutto ciò, ma nessuno le capiva. Ad un tratto ebbi pietà per quelle persone innocenti e iniziai a parlare un perfetto albanese per aiutare a chiarire la questione. La signora più anziana mi ringraziò stupefatta e dopo essersi calmata mi chiese da dove venissi. Appena le dissi che provenivo dal Kosovo e Metohija, lei mi abbracciò in modo affettuoso ripetendo incessantemente “oh, Kosovo, Kosovo”, come se avesse incontrato all’improvviso una parente che non conosceva. Ero commossa, confusa e ad un tratto capì la fatale realtà che accomuna tutti noi che amiamo il Kosovo e per il quale dobbiamo morire.

Ed ora che hanno ottenuto formalmente questo Stato, sento che gli albanesi là vivono duramente, le morti dovute al cancro sono aumentate, i bambini nascono deformi a causa delle radiazioni, i giovani affogano nelle droghe e nella lussuria, e mi chiedo se loro volessero tutto questo. Se con noi stavano veramente così male! Ora chi è il vincitore e chi lo sconfitto? Oppure è come ho scritto in una poesia: „Il male comincio potentemente a ballare/ e tutti gli altri rimasero schiaciati“.

E il mio più grande amore, mio marito e padre delle mie figlie, è rimasto a giacere nella sua città, nel cimitero di Priština, raso al suolo dai bombardamenti e coperto da erbacce. Quando siam andate a trovarlo al cimitero, ci siamo spaventate per la paura di non trovarlo, tanto erano alte le piante. Sulla sua tomba è cresciuto un albero di visciole, sicuramente per ripararlo dal sole, come quando un  tempo sedeva in giardino all’ombra dell’albero di visciole con i rami pieni di frutti rossi, senza il presentimento dell’avvicinarsi della morte, né delle erbacce sulla sua tomba. Le figlie ed io piangendo abbiamo iniziato a tagliare gli arbusti , ma abbiamo anche capito che proprio loro proteggevano il monumento da eventuali vandali che l’avrebbero distrutto come hanno fatto con le altre tombe ed allora ci fermammo. I suoi occhi tristi dalla fotografia del monumento guardavano come si fossero meravigliati dall’improviso mutamento delle cose che nessuno poteva prevedere.

E nuovamente profumarono i tigli, di un’essenza forte, insopportabile. Ci colpì un pesante odore di tristezza di vite spezzate, dell’umanità sconfitta e del trionfo della bestialità come volle  il nuovo principio imposto dal Nuovo ordine mondiale.

Milica Jeftimijević Lilić

Traduzione, Igor Pisani

Rivista dalla poetessa Claudia Piccinno






+381 63 316 668


* Il nome deriva dal verbo sanjati ( sognare ) – nota del traduttore
*Principe medievale serbo, si oppose all’avanzata turca nella famosa battaglia del 1389 sul Campo dei Merli dove perì. – nota del traduttore


*Goranzi – gruppo etnico slavo islamizzato di Kosmet (Kossovo e Metohija) - nota del traduttore

* SPS – Partito socialista serbo  - nota del traduttore



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