martedì 6 giugno 2017

Sciami e formiche

Giuseppe Iuliano: Sciami e formiche, Delta3 Edizioni 2017
recensione di Vincenzo D’Alessio

http://web.tiscali.it/giuseppeiuliano/biografia.htm
 
La plaquette che reca come titolo: Sciami e formiche e sottotitolo: È mio il dolore degli uomini del poeta Giuseppe (Peppino) Iuliano contiene nove componimenti che lo scrittore Paolo Saggese, curatore insieme al giornalista Gianni Raviele, definisce saggiamente “Poemetto”.
Un poemetto storico poiché riprende sistematicamente come spunto gli eventi sismici a partire dal 23 luglio 1930, al 21 agosto 1962 e al 23 novembre 1980 per l’intera area irpina. Il terremoto del Belice, in Sicilia, del 1968, quello del Friuli del 1976, ad Assisi nel 1997, a San Giuliano di Puglia nel 2002, a L’Aquila nel 2009 e 2012, per finire con quello recente di Amatrice e dintorni del 2016.
Il tema del racconto, affabulazione tragica, parte dall’infanzia quando le vicende del sisma del Millenoceventotrenta era “(…) parola sempre viva / scura nera come le vesti degli uomini” (pag. 7) tramandata nelle piccole comunità contadine, i morti erano già “sprofondati in mucchi e rovine” e la Seconda Guerra Mondiale si affacciava a sottrarre altre giovani vite.
Il poeta Iuliano nato negli anni Cinquanta raccoglieva nell’anima il messaggio della sua gente, trasmettendolo già agli esordi della sua attività pubblica di scrittore , nel volume che reca il titolo: La civiltà contadina in Irpinia datato 1982, a testimonianza dei percorsi che la sua terra viveva e le cicatrici lasciate dai fenomeni naturali e dal conseguente spopolamento.
L’idolo della morte è presente nella nostra penisola da troppi secoli e la sventura non è legata a un Dio cristiano assente o vendicativo. La morte n elle nostre comunità è frutto dello sfruttamento incondizionato del suolo già instabile ,dalle cattive costruzioni delle case: “(…) vecchie di crepe e miserie” (pag. 8). Basti pensare che dal sisma del 21 agosto 1962 a quello del 23 novembre 1980 non furono realizzate in Irpinia opere che potessero in qualche modo arginare i futuri, prevedibili, terremoti.
La domenica del 23 novembre 1980, calda e illuminata da una luna innaturale, il Diesirae (pag. 9) cantato da Iuliano realizzò il massimo della sua coralità distruggendo in un minuto: vite, memorie e comunità. I soccorsi, giunti nei giorni successivi, si trovarono di fronte “all’apocalisse d’Irpinia” (pag. 9) con l’impossibilità di raggiungere le località interne a causa della mancanza di strade adeguate.
Ecco come concorda con il Nostro a tale proposito lo scrittore Gianni Raviele nella sua prefazione a quest’opera: “(…) Ma come raggiungere quegli acrocori se le strade sono ancora mulattiere e un sonno immemorabile avvolge i borghi della parte alta della nostra provincia?” (pag. 4).
Saranno i terremotati del Friuli del 1976 a scendere per dare una mano alle comunità irpine. Saranno le Regioni del Nord a sentirsi sorelle per soccorrere, dagli sciami sismici che continuarono senza sosta, le “(…) Formiche operaie, stimmate di calli e serchie / affidarono al lutto sacrificio e dispensa” (pag. 10).
Scrivo di quei momenti con tutto il dolore ancora presente per i nostri morti, tremila e più, che non si aspettavano tanta distruzione dalla Madre naturale che li aveva nutriti, costretti ad emigrare e tornare con la casa realizzata con i sacrifici fatti, e che ora mostrava i denti avvelenati della “serpe”.
Una grande forza d’animo anima questi versi che nulla pretendono se non di unire la tristezza incommensurabile dei corsi e ricorsi storici, che la nostra sventurata terra natale è costretta a sopportare, senza la sicurezza di essere difesa insieme ai suoi già poveri abitanti.
Si scoprono identiche le realtà dei luoghi presi in considerazione, la morte che si sparge ad ogni ritorno di “sciami”.
Noi sappiamo di essere impreparati ancora oggi, nonostante che dall’immane tragedia del 1980 nacque il volontariato della “Protezione Civile” presente oggi sull’intero territorio nazionale. Siamo alla mercé di quella genia di “(…) falsi galantuomini / frontiera e confino di cafoni / feudo di baroni, spettro di malavita / paradiso di ras di ogni potere / bisacce e carovane inquiete di migranti / di ogni orizzonte e precarietà / vento ed àncora per ogni dove” (pag. 9).
Una grande e fluida passione, generata dall’enjambement, solca questi versi per stillare nel lettore la capacità di guardare con occhio sincero “il dolore degli uomini”: collettivo, interminabile, cronologico.
Vorrei che Iuliano accettasse anche la voce di un altro giovane poeta irpino che, come lui, di quel 23 novembre 1980 testimone bambino ha scritto:

“di chi è la colpa per queste viscere / contorte di cemento e ferro, se / le voragini nelle pietre hanno tranciato / i corpi – chiedi a me che ho occhi / di bambino e ascolto - non credo / che la terra sola abbia inghiottito tutto / se il sangue a fiotti bagna sopra questi lutti.” 

(D. CiprianoNovember, Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2015).

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