lunedì 8 maggio 2017

Le prospettive disgregate nella poesia di Germana Duca

recensione di Giorgio Nonni a Orlo invisibile pubblicata sul Carlino Marche (4-2-17) e successivamente Il Nuovo Amico




“Il primo verso lo donano gli Dei e tutto il resto invece viene da un’elaborazione successiva”, era solito affermare Vittorio Sereni, recuperando un’intuizione di Paul Valery, secondo la quale la funzione inventiva è una delle poche cose che apparenta l’uomo agli Dei. E non è senza significato che in limine alla silloge di testi raccolti all’interno di un Orlo invisibile (le linee non rappresentano il limite delle cose, ma il confine e la mediazione tra valori comunicanti mai separati da apparenti cesure) campeggi una storia che affonda nel Mito, in un intarsio di reminiscenze antiche in cui si adunano misteri e incantagioni, pur se declinati nel quotidiano ménage con abile trasposizione temporale. E irrompono le ali di farfalla di Psiche, raffigurata in una apparente cerimonia di consacrazione mistica che rafforza il legame con l’Anima di Eros. Sì, l’amore, che traspare in ogni verso di questa densa raccolta, e che nutre le nostre fibre, alimenta legami, ma riserva energie anche a quella umanità dolente che negli esodi biblici accosta ai nostri destini le carni ustionate e le facce incrostate di sale, nere come notti senza luna.

E il Tempo è la coordinata che dà la misura del susseguirsi degli eventi all’ombra dei Lari: eventi fausti, come l’ingresso alla vita di nuove creature, e anche dolorose ricorrenze trascorse nella fissità di un evo eterno. È una poesia sorgiva che tende al massimo tono della luce della parola che, tra sbalzi e vertigini, conserva la forza arcaica delle pietre; poesia che gioca le sue carte tra immagini del mito e della classicità da una parte, e tra luoghi e passi delle Sacre Scritture dall’altra. E non c’è aporia tra questi due mondi in apparenza lontani ma saldati dalla vasta cultura unitaria di Germana Duca, prodotto di una assidua e feconda frequentazione dei testi dei Padri della Chiesa come della nostra civiltà classica.

L’autrice apre finalmente il grande e meraviglioso Libro della Natura, in tutte le sue manifestazioni, superando i pregiudizi di una cultura idealistica che predicava la separatezza tra le scienze e la letteratura. È una ricerca costante dell’antica Madre, quella Luna enigmatica che suggerisce cicli temporali, che rinnova i suoi riti e le sue stagioni e che governa la germinazione e la fecondità. E nella scansione temporale dei mesi risorge, dopo lungo letargo, e puntualmente annunciata da proverbiali adagi, la primavera gonfia di acqua perché, secondo un antico detto, “le piogge d’aprile / valgono come un carro d’oro con tutto l’assile”.

E la lingua si erge a difesa di una perdita continua, nel mondo esterno, di sentimenti e valori autentici, come è ben esemplificato nel testo che apre la seconda sezione. Lingua primitiva còlta nei primi elementi fatici e nei suoni usciti di bocca alle creature che animano il pascoliano “desco fiorito di bambini”. Lingua mai ingabbiata che possiede un’anima, e che rende vitale il colloquio umano, nella sua limpida tramatura in cui restano impigliati i sogni evocati dalle bolle di sapone all’ombra degli ippocastani e le labili orme, impresse nel cemento del Passetto, che sovrasta l’Adrïatico mar, da una giovinezza proustianamente immersa nelle campagne marchigiane fra le onde di frumento, mentre la calura fiara gli orti. Ma la terra si sottrae all’abbraccio delle acque turchesi e l’approdo agli ariosi pianori segnati dalle bionde anse del Metauro rappresenta per l’autrice una scelta definitiva e di vita, anche quando un sotteso desiderium parrebbe ricondurre a una fusione dell’io nell’universo marino di provenienza. E nella teoria infinita delle distese collinari, abitate da un cromatismo lineare che vira al cilestro, si concreta appieno il rapporto panico con il paesaggio pierfrancescano, che restituisce unità e armonia ad elementi naturali perennemente in contrasto.

Diventa invece elemento estraneo, nella terza sezione, il tempo, che non consente quel processo di ripetizione proprio delle divinità ctonie: viene meno, così, il concetto di felicità, che non è in grado di permanere a lungo, né di reiterarsi. E allora il varco, che oltrepassa l’orlo, può solo aprirsi alle vibrazioni di un vetro o di un’anta che ci riconducono a quella “corrispondenza di amorosi sensi” che guida le nostre prospettive disgregate: ombre antiche che, come luci di una stella, ci aiutano a sfogliare le pagine della vita.

E con una scrittura “orante e cantilenante”, Dicembre chiude questa specie di lunario che si tramuta in Preghiera, con la suggestiva riscrittura del Salmo 144. Un canto di lode al Signore che ravviva nel cuore di tutti i bambini del mondo la brace, quell’amore che rappresenta la sola àncora di salvezza. Nella scrittura, come nella vita. Forse, come ci spiega una leggenda, era stato proprio il vento a far vibrare la cetra che Davide aveva appeso ai rami di una palma, dopo le fatiche della guerra contro Saul. O forse le dita di un angelo intessevano sulle corde quella trama musicale, dolce e straziante, per il Salvatore, nel silenzio e nell’oscurità della notte.

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