Fra i versi e gli spazi
bianchi, di uno tra i più promettenti poeti italiani
La poesia di Massimo Gezzi, che si dona al lettore nell’ultima
raccolta Il numero dei vivi (Donzelli, 2015) è ricerca del senso: l’esserci
dell’uomo gettato nel qui-ora esige una spiegazione. “Dopo-adesso, voglio
dire / dopo-prima, anzi meglio: durante”: questo, ci ricorda l’autore nel prologo Zero, è il punto di partenza. Trovare il
valore della terra, della hölderliniana madre-terra, grazie anche ad una puntuale attenzione ai morti
che, come i vivi, contemplano la
vita (“anche quelli di un tempo / che non respirano più, ma percorrono senza
requie / le strade del paese, balbettando”, ivi); forse voci inutili, come è
inutile l'esercizio della scrittura e forse anche gli eventi più intimi come le
dita di una figlia “che si allungano nel buio”. Una sibilla raccoglie le foglie
e le conserva, altri le ritroveranno e le coloreranno. È una luce da
difendere, questa finitezza, forse un nulla, a cui vale comunque la pena
aggrapparsi, perché non smette di ripresentarsi, di esserci (“Smetti tu di
tirare / righe scure, di cancellare. Tocca il tavolo, la carta. / Impara un'altra
volta a far di conto: / non sottrarre allo zero, aggiungi uno”, ivi).
Dal grado Zero, si passa al grado Uno:
primo di dieci passi, nei quali si inizia a raccogliere molliche di senso, per
ricostruire un pane del quotidiano. Qui, come in altre
parti della raccolta, spesso è la
visione del paesaggio a suscitare le riflessioni esistenziali (“Si fermò ad
osservare gli ultimi bagliori / di luce che affondavano dietro i monti […] la
nuvola più lontana sbiadì all’improvviso”, Un
congedo), fungendo da correlativo oggettivo privilegiato. Paesaggio
naturale e paesaggio dell’anima, quello che aumenta la propria potenza
percettiva proprio nello spazio delle soglie, del limine, dei saluti-congedo,
delle partenze: “tu sei ciò che scegli, ciò che vuoi, / quello che dici e anche
quello che non dici” (ivi), “tu adesso sei importante, e non lo credi, e non
lo sai” (Due abbracci). Eppure
prevale l’inquietudine: “manca sempre qualcosa” (ivi). “Cosa manca”? è una
domanda gettata nello stagno, posta “sapendo/che non avrebbe più risposto”
(ivi). Ci sono e non ci sono le risposte: non ce le daranno coloro che stanno
per andarsene, dovremo trovarle noi, nell’esperienza. Che alla fine però, si
dimenticherà, forse, di noi, continuando a cedere nella memoria degli umani. O forse no.
Si tratta di tessere un proprio elenco del senso: “riscrivi
questa lista” (Cinque finestre, secondo
movimento). C’è il bisogno di nominare le cose semplici, quotidiane
(l'immondizia, le pentole, lo zucchero, le piante del balcone, la valigia, i
vestiti, lo zaino per un percorso “che ricomincia tutti i giorni, / a ogni svolta
del corridoio” (Dimenticanze), un
tavolo, delle tende, il bagliore del televisore): Bisogna ricominciare a
tracciare i perimetri del mondo (novelli agrimensori): come in Rilke, compito dell’uomo-poeta (?), è di
tornare, da pellegrini, a
(ri)nominare gli oggetti («Siamo qui forse per dire: casa, / ponte, fontana,
porta, brocca, albero da frutto, finestra, - / al più: colonna, torre… ma per
dire, comprendilo, / per dire così come persino le cose intimamente mai /
credettero di essere» (Rilke, Nona Elegia). Fra gli oggetti, dei fotogrammi, Otto fotografie su una bacheca (come quella della gozzaniana nonna
Speranza con amica Carlotta) “ognuno nel suo gesto, / ognuno irripetibile e nel suo
breve / splendore indimenticabile, / dimenticato” (VIII). Siamo: ed è svanire… eppure… Si può sperare (?) in un
montaliano anello che non tiene,
che si apra “una falla / nella logica delle cose” (Dieci piani in via): “la parola è speranza ed è sbagliata, / una
volta ancora” (ivi); “La parola è impalcatura. Fatta di pali, / di giunti, di
fatica condivisa / per costruire una struttura / temporanea, da smantellare, / di cui
non resta traccia non appena/la costruzione del condominio è terminata” (ivi).
All’Uno si aggiungono gli altri: vicini, lontani, viventi,
defunti, ombre, consistenze, dissolvenze… L’ansia è per la luce: “la luce che
poteva visitarti si è posata / sullo scuro che si è chiuso / imprevedibilmente” (Responso per R.). Purtroppo, però, è una luce che si frantuma in
sottilissime fessure che “non portano a niente” (ivi). Gli altri, come
dicevamo, si incontrano in profondità sulla soglia, là dove si divide l'umido dal secco” (Lo spazio percorso): all’illuminazione
(effimera) della luce naturale subentra
“il pulsante / arancione tremante della luce delle scale” (che rievoca il
campanello reboriano che impercettibile spande un polline di suono), nel rito
dell’allontanamento.
Persone ed oggetti sembrano apparire per un esercizio di
dissolvenza.
Si giunge all’ultima sezione, che dà
il titolo alla silloge: Il numero dei
vivi. Si tratta di procedere alla conta, di ascoltare l’Eco della vertigine
della lista: il
paesaggio c'è ancora, il sole
accende i gialli, è un “trapezio
di luce” (Promemoria) che poi
svanisce. Qualche occasionale lamella di luce sul pavimento del
naufragio, mentre i viventi vanno avanti (“Il suicida risale sul ponte col rewind
e legge la pagina di sport”, Dimenticanze),
sospinti da “un'unghiata di sole” (Strillo),
una luce che ancora indora il profilo dei monti.
Ma gli uomini sanno anche condividersi, se escono dal loro
guscio vuoto: “sotto i piedi / degli uomini, tra le fessure delle suole […] o
negli incavi dei copertoni” i semi
giungono più lontano (Due ritrattazioni). Si tratta di
aggiungere relazioni al numero dei vivi: una figlia, da indovinare nel volto di
qualcun’altra, una ragazza sconosciuta aiutata a rialzarsi, i nuovi vicini di
casa. Urge “Difendere un perimetro di luci”, di spazi e di esistenze, “appartenersi
nel rito / del risveglio sotto un unico / tetto che sembra casa e non lo è, / perché
le luci già tremano” (Discorsi ai nuovi
vicini).
Urge una leopardiana ginestra: oltrepassare una vita di quieta
sicurezza “che schiva gli ostacoli e le spinte” (Un passo indietro), coscienti di essere tutti appesi a un vuoto che
“un passato di generazioni riempie sempre / di un senso” (Discorsi ai nuovi vicini). Per capire alla fine che il “lusso di un
nulla / imperturbabile” (Lettera a Fabio)
sazio di delusione e dolore va ritrattato, che nella scacchiera degli eventi la
tavola è imbandita di esistenze imperfette, sì, ma reali, che non tutti, non
sempre, abitiamo poeticamente la terra (ma seguiamo altre tracce, Traccia n. 4), che, come dice l'amico
Fabio, “custodiamo una vicenda / di partenze e ricordi, la storia di un altro / che
ancora non si vede ma già chiede / risposte a una domanda indecifrabile” (Lettera a Fabio). Per renderci conto che
il profilo delle cose, se sappiamo guardarlo veramente, condiziona il nostro
stesso essere pensanti.
C’è una libertà che ci (at)tende: ci dice che non bisogna unire
i puntini per far emergere un disegno già previsto, che bisogna trovare le differenze, fare un altro gioco, non
vedere “solo ciò che è uguale” riuscendo a vedere il campo di colza che si
tinge di marea (Unisci i puntini): il
cerchio si chiude con un quesito, che è speranza di un'ombra che è
minaccia ma che ci rende meno soli nella volontà – ma non certezza – di essere (Ultima domanda); un’ombra che, nella
dialettica con la luce, “era la gioia” (ivi). La memoria foscoliana è una
corrispondenza d’amorosi sensi disturbata, con interferenze, imprecisa,
imperfetta: eppure, è.
Massimo Gezzi (S. Elpidio a Mare, 1976)
ha pubblicato i libri di poesia Il mare a destra (Edizioni Atelier,
2004), L’attimo dopo (luca sossella editore, 2009, Premi Metauro e
Premio Marazza Giovani), la plaquette trilingue In altre forme/En
d’autres formes/In andere Formen, con traduzioni in francese di Mathilde
Vischer e in tedesco di Jacqueline Aerne (Transeuropa, 2011) e Il numero
dei vivi (Donzelli 2015, Premio Carducci, Premio Tirinnanzi e
Premio svizzero di letteratura 2016). Ha curato l’edizione commentata del Diario
del ’71 e del ’72 di Eugenio Montale (Mondadori 2010) e l’Oscar
Poesie 1975-2012 di Franco Buffoni (Mondadori, 2012). In Tra le pagine
e il mondo (Italic Pequod 2015) ha raccolto dieci anni di interviste ai
poeti e recensioni a libri di poesia. Vive a Lugano, dove insegna italiano
presso il Liceo 1. Il suo sito è www.massimogezzi.it
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