martedì 17 novembre 2015

ALBERTO MORI: tra rifrazioni e oasi Web

recensione di Domenico Cara a Canti Digitali



In una sensibile (e antologica) visività di spazi liberi, questi sparsi emblemi poetici rivelano al lettore quel genere di novità che la tecnologia adotta per testimoniare la digitalità: “Il riflesso schermo del notebook bianco / crea account luminoso davanti alla vetrata / al rimirare serafico della lampada alogena” (p. 62). “Stelle rabdomanti / confluite al bivio silenzioso / scrivo con raggi laser doppler / Galassia Gutenberg / nel libro universale” (p. 93). “# 0: 00 # / Panoptica immagini estesa illuminata sullo spazio parietale / Pause elettroniche a brevi Still Frames / Sguardo affrontato con visioni multiple /  1 # 0: 00 # 1 / inizia altro timing / lo stesso modulo visivo disperde” (p. 100). Il tempo a cui i testi si aggregano impiega passi brevi e lenti (quasi per discrezione), continua la sua irreale realtà; il desiderio del nuovo, prima d’ora imprevisto, a cui la poesia aderisce e si nutre in stile mobile e forse velato. Accadeva alle sperimentazioni multiple di Man Ray nel secolo scorso, assiduamente diverse da tantissime espressioni dada guidate da Marcel Duchamp. L’attuale sviluppo solennizza gli effetti Web del lavoro di Alberto Mori, cremasco poeta e performer, già conosciuto per le sue ricerche non definitive ed esplorative. Egli non dimentica le esperienze passate e recenti in altre sillogi, integrando non-sensi, dissipazioni scritte per essere isolate dal medesimo contesto espressivo. Le appena decise maschere dei segni, quasi iridate in disegnati annunci, vagano raccontate come per definire un’ampia metafora dell’esistenza. (Questione di stile che ha i suoi significati, come sempre non privi di involuzioni esperte e di intimi ricordi senza abbagli). Le tentazioni e le essenze del gioco sono flessibili insieme ai tagli utilizzati per la buona riuscita dei toni, i rapporti di interazione con la parola docile e rinascente, sempre in fase di riepilogo, tracciano “canti” tradizionali, metri neutri o larvali, istmi di pura percezione, variabile langue.
I ritmi conducono per sintesi flessioni tematiche e scrupoli di un messaggio comunicativo, sciolto. L’emotività percepita non aiuta lo schermo ad un qualche divenire e si sposta nel rigore di una espositiva, duttile dimensione, senza mediazione o gloria di canto neo-crepuscolare.
E questo inalvea (malgrado la volontà del lettore che si stupisce) quella tensione che presiede alla Phone, alla Techno vision e agli elementi che l’azione manifesta alla coscienza di rinnovamento (già ben integrato alle varie fatiche novecentesche). I leit-motiv, tutt’altro che improvvisati per reazione ai linguaggi diffusi, insistono attivamente sul proprio fare. Esistono iniziali riluttanze al progress di amatori del verso, ma qui tutto spia una responsabilità che finora nessuno aveva chiesto alla poesia in tomo editoriale e adesso senza artificio. “Le derive del racconto / distaccate dalla multiproiezione della trama / riconfluiscono e rivedono città sensitive // A sincrono fermo abbagliano mute / dall’ultimo messaggio sull’icona immagale // Poi sullo schermo raddoppiato a split / accelerano ed intagliano arti geomorfi // Meteo previsioni del corpo incise sulle news” (p. 101). L’opera è quindi colta in quel magico itinerario che è immerso in “infralampi” e in etiche so stanziali e oggettive corrispondenti alle sue scelte misure.

Nessun commento: