recensione di Domenico Cara a Canti Digitali
In una sensibile (e
antologica) visività di spazi liberi, questi sparsi emblemi poetici rivelano al
lettore quel genere di novità che la tecnologia adotta per testimoniare la
digitalità: “Il riflesso schermo del notebook bianco / crea account luminoso
davanti alla vetrata / al rimirare serafico della lampada alogena” (p. 62). “Stelle
rabdomanti / confluite al bivio silenzioso / scrivo con raggi laser doppler /
Galassia Gutenberg / nel libro universale” (p. 93). “# 0: 00 # / Panoptica
immagini estesa illuminata sullo spazio parietale / Pause elettroniche a brevi
Still Frames / Sguardo affrontato con visioni multiple / 1 # 0: 00 # 1 / inizia altro timing /
lo stesso modulo visivo disperde” (p. 100). Il tempo a cui i testi si aggregano
impiega passi brevi e lenti (quasi per discrezione), continua la sua irreale
realtà; il desiderio del nuovo, prima d’ora imprevisto, a cui la poesia
aderisce e si nutre in stile mobile e forse velato. Accadeva alle
sperimentazioni multiple di Man Ray nel secolo scorso, assiduamente diverse da
tantissime espressioni dada guidate
da Marcel Duchamp. L’attuale sviluppo solennizza gli effetti Web del lavoro di
Alberto Mori, cremasco poeta e performer, già conosciuto per le sue ricerche
non definitive ed esplorative. Egli non dimentica le esperienze passate e
recenti in altre sillogi, integrando non-sensi, dissipazioni scritte per essere
isolate dal medesimo contesto espressivo. Le appena decise maschere dei segni,
quasi iridate in disegnati annunci, vagano raccontate come per definire un’ampia
metafora dell’esistenza. (Questione di stile che ha i suoi significati, come
sempre non privi di involuzioni esperte e di intimi ricordi senza abbagli). Le
tentazioni e le essenze del gioco sono flessibili insieme ai tagli utilizzati
per la buona riuscita dei toni, i rapporti di interazione con la parola docile
e rinascente, sempre in fase di riepilogo, tracciano “canti” tradizionali,
metri neutri o larvali, istmi di pura percezione, variabile langue.
I ritmi conducono per
sintesi flessioni tematiche e scrupoli di un messaggio comunicativo, sciolto. L’emotività
percepita non aiuta lo schermo ad un qualche divenire e si sposta nel rigore di
una espositiva, duttile dimensione, senza mediazione o gloria di canto
neo-crepuscolare.
E questo inalvea
(malgrado la volontà del lettore che si stupisce) quella tensione che presiede
alla Phone, alla Techno vision e agli elementi che l’azione manifesta alla
coscienza di rinnovamento (già ben integrato alle varie fatiche novecentesche).
I leit-motiv, tutt’altro che improvvisati per reazione ai linguaggi diffusi,
insistono attivamente sul proprio fare. Esistono iniziali riluttanze al progress
di amatori del verso, ma qui tutto spia una responsabilità che finora nessuno
aveva chiesto alla poesia in tomo editoriale e adesso senza artificio. “Le
derive del racconto / distaccate dalla multiproiezione della trama /
riconfluiscono e rivedono città sensitive // A sincrono fermo abbagliano mute /
dall’ultimo messaggio sull’icona immagale // Poi sullo schermo raddoppiato a
split / accelerano ed intagliano arti geomorfi // Meteo previsioni del corpo
incise sulle news” (p. 101). L’opera è quindi colta in quel magico itinerario
che è immerso in “infralampi” e in etiche so stanziali e oggettive
corrispondenti alle sue scelte misure.
Nessun commento:
Posta un commento